“Lettera Periodica” è uno strumento informativo distribuito via posta ai soci per la comunicazione della vita dell’Associazione.
Proponiamo a tutti gli ultimi editoriali.
L’anno appena trascorso ci ha visto coinvolti in eventi e iniziative che hanno sollecitato la nostra disponibilità a una effettiva condivisione della nostra esperienza, in un moto di apertura e inclusione dettato unicamente dalla passione per il destino di chi abbiamo incontrato sul nostro cammino. Abbiamo ripreso la nostra consueta attività di accompagnamento tra famiglie dopo due anni di pandemia, cogliendo spesso il desiderio e talvolta sfidando la pigrizia del ritrovarsi in presenza; abbiamo iniziato la collaborazione con diverse realtà, coinvolgendoci nella non facile ospitalità di famiglie ucraine fuggite dalla guerra.
Nella ricorrenza dei nostri 40 anni dalla fondazione abbiamo incontrato il Santo Padre che ci ha rivolto parole di gratitudine e di incoraggiamento1 nel continuare quell’abbraccio spalancato ai nostri figli accolti e a chiunque venga a noi bisognoso.
Migliaia sono stati i visitatori della mostra proposta al Meeting sfidati a intercettare quell’avvenimento che accade nelle nostre famiglie, ogni qualvolta ci apriamo al mistero di Dio che bussa alla porta della nostra casa, attraverso il volto di chi accogliamo.
Un avvenimento che si propone continuamente e instancabilmente a ognuno secondo la propria storia e sensibilità e che, se riconosciuto, attraverso le inevitabili ferite che ogni esperienza di accoglienza porta con sé, trasforma la vita in un rifiorire dell’umano, rendendola lieta, bella. È l’esperienza della resurrezione, concreta e sperimentabile, che tocca il nostro cuore e quello di ogni uomo.
Ciò non accade per una nostra tensione muscolare, intellettuale od organizzativa, ma per la semplice disponibilità delle nostre fragili persone che diventano veicolo di una non pianificata testimonianza.
Proponiamo come aiuto a questo percorso i punti che costituiscono il nostro “Filo Rosso” per l’anno sociale 2022-23.
«Quello che ci fa accogliere non è la nostra forza, ma la nostra debolezza, che in una obbedienza si vivifica e genera vita.» (2) L’inizio di ogni nostro gesto di accoglienza è definito non da una nostra forza, ma da un’umile obbedienza (talvolta percepita come debolezza), che poi cresce accompagnando le fragilità dei nostri figli e il loro desiderio di compimento. Così impariamo a guardare e ad accogliere anche le nostre fragilità. Ancor di più: sperimentiamo l’impossibilità di risolvere il dramma e il dolore di chi ci troviamo ad amare così profondamente.
Eppure, vivendo questa esperienza tanto reale quanto contraddittoria, sperimentiamo un bene: una maturità umana, una passione e un amore alla libertà infinita dell’altro, alla sua − e solo sua − strada, spesso tortuosa verso il proprio destino. Fino a scoprire come chiunque accogliamo sia molto di più di ciò che a noi appare e delle azioni che compie. La nostra debolezza non è quindi obiezione, ma diventa strada privilegiata, spunto generativo che rende evidente l’irrompere dell’opera di Dio attraverso le nostre fragili vite.
Perché ciò accada occorre la docilità di una obbedienza alle circostanze poste sul cammino di ciascuno e la sequela alla grande compagnia della Chiesa a cui la nostra Associazione continuamente si riferisce: «Possiamo farci compagnia anche in mezzo alle ferite che abbiamo, possiamo reggere davanti a tutte le sfide, soltanto se abbiamo una speranza poggiata su qualcosa di presente, così fragile come la nostra compagnia, ma che è segno della Sua presenza […] perché si tratta dell’unico sostegno che veramente risponde alla radice del nostro essere, a quel bisogno ultimo cui solo Cristo può rispondere.
Per questo, se la nostra compagnia non ci porta lì, non soltanto non potremmo farci veramente compagnia, ma non potremmo fare compagnia neppure ai figli» (3).
Così, senza volerlo siamo resi «segno di una novità che come onda si dilata di famiglia in famiglia » (4). È questa dunque la nostra testimonianza: «Una realtà umana nel senso totale e banale del termine […] contenuto di un’esperienza normale, ma che veicola, porta dentro di sé, qualcosa che non è più “normale” […] è un comportamento umano constatabile, oggetto di esperienza da parte di chiunque ci passi accanto, ma che desta uno stupore […], per indicare l’eccezionale che accade […] una cosa che nei suoi aspetti immediati può essere normalissima, eppure ha dentro qualche cosa che richiama per forza Dio» (5).
Questo è l’augurio per il cammino di quest’anno: continuare a stupirci dell’eccezionale che accade in ogni nostro gesto di accoglienza e raccontarlo attraverso la letizia dei nostri volti: «Non dovete cercare innanzitutto che gli altri vedano: se vedono perché cercate di essere visti, vedono di meno. Invece se non vi importa di essere visti o di non essere visti, ma offrite al Padre, tutto il mondo vede, anche senza vedere, secondo la bella frase di un famoso filosofo greco: l’armonia nascosta (cioè la verità nascosta) è più potente di quella manifesta» (6).
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1 «Saluto l’Associazione Famiglie per l’Accoglienza che si dedica all’adozione, prendendosi cura di bambini e anziani in difficoltà: perseverate nella fede e nella cultura dell’accoglienza, offrendo così una bella testimonianza cristiana e un importante servizio sociale. Grazie, grazie per quello che fate» (Papa Francesco, Udienza generale, 18 maggio 2022).
2 Gloria Arnau, video introduttivo alla mostra “Non come, ma quello. La sorpresa della gratuità”, presentata al Meeting di Rimini, agosto 2022.
3 J. Carrón, Tu, sorpresa alla mia vita. Nell’accoglienza l’audacia di un incontro, dialogo con Famiglie per l’Accoglienza, novembre 2020.
4 L. Giussani, lettera a Famiglie per l’Accoglienza in occasione del 20° dalla fondazione.
5 L. Giussani, Il miracolo dell’ospitalità, Piemme, Milano 2012, pp. 89-90.
6 L. Giussani, Il miracolo dell’ospitalità, Piemme, Milano 2012, p. 95.
Dopo quasi due anni di pandemia, che aiuto possiamo darci per affrontare con certezza e speranza il futuro? Come accompagnare le nostre esperienze di accoglienza affinché nelle nostre case, tra di noi e con chi incontriamo si possa continuare a sperimentare quel fiorire dell’umano che così sorprendentemente caratterizza la nostra amicizia? Come tutti, siamo sospesi tra il desiderio di tornare ad una rimpianta normalità e la consapevolezza che forse niente sarà più come prima.
In realtà viviamo l’incertezza e il timore che naturalmente sorgono nell’affrontare ogni nuovo passo. Da dove ripartire allora?
Proponiamo come aiuto a questo percorso i punti che costituiscono il nostro “Filo Rosso” per l’anno sociale 2021-22.
1. Amore al destino
Ogni accoglienza è un gesto di gratuità. Non è tornaconto o calcolo ma è amore incondizionato al destino dell’altro, che dà forma ad ogni rapporto e modella ogni nostro tentativo di presenza: «La gratuità è amore al destino dell’altro e basta. […] Gratuità indica che chi mi comunica quelle cose che corrispondono così al cuore, […] lo fa senza calcolare niente, senza avere per se stesso niente, perché abbia buon esito il mio vivere, perché il mio vivere raggiunga il mio destino.» E bisogna essere stati oggetto di un grande amore per poter amare gli uomini. Perché si ama se si è amati. Ciascuno di noi può rintracciare nella propria esperienza i segni e le conferme di questo sguardo di gratuità, ricevuto e naturalmente offerto.
2. Fedeltà alla compagnia incontrata
«Non c’è gratuità autentica, se non si vive con gratitudine la carità con cui Cristo ha toccato la nostra vita attraverso l’esempio di altri o attraverso l’incontro con una compagnia. Senza, cioè, fedeltà alla compagnia che abbiamo incontrata, sarebbe falsa la nostra carità: non farebbe storia, cioè non collaborerebbe veramente […] alla costruzione del regno di Dio». Quante volte, specialmente in questi ultimi tempi, siamo stati testimoni di gesti di gratuità autentica! Gesti capaci di sorprenderci attraverso il volto di amici che, pur vivendo situazioni di grande difficoltà, esprimono una letizia e una certezza oggi decisamente inusuali. Perché non siamo lasciati soli davanti ai limiti e alle ferite nostre, e di chi accogliamo. La fedeltà di Dio, attraverso fatti, persone e incontri, accompagna la vita di ciascuno e la nostra storia: «possiamo farci compagnia anche in mezzo alle ferite che abbiamo, possiamo reggere davanti a tutte le sfide, soltanto se abbiamo una speranza poggiata su qualcosa di presente, così fragile come la nostra compagnia, ma che è il segno della Sua presenza». La nostra fedeltà sgorga allora dallo stupore per questa tenerezza e affezione ricevute senza merito, che chiede solo tempo affinché la nostra vita possa profondamente implicarsi con la vita dell’altro.
3. Il luogo della speranza, inizio di un cammino
«Nell’immanenza a questo luogo [a questa compagnia], cresce, si incrementa, la nostra umanità, in un cammino che accompagna tutta la vita». Potremo allora sostenerci in questo prossimo anno, aiutandoci a scorgere dove e con chi quello sguardo di gratuità totale sta già accadendo nelle nostre vite, facendoci vivere una «familiarità che si apre in un abbraccio senza remore»5verso chiunque incontriamo. Rendendoci «segno di una novità che, come onda, si dilata di famiglia in famiglia, […] in un movimento che è inizio di una società più umana, perché fatta di persone appassionate al destino degli uomini. Avendo [noi] conosciuto il Fattore che dà la vita e il respiro ad ogni cosa.»
«State in gioia!» Così il prof. Zamagni saluta al termine del dialogo in videoconferenza sul libro “Il bene che permane” al quale ha partecipato insieme alla Ministra per le pari opportunità Elena Bonetti. Il saluto è di fatto un’esortazione che il Docente di Economia Civile e Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali rivolge alla nostra Associazione, dopo aver ricordato la novità che la nostra esperienza vive e porta: il fiorire dell’umano, che si esprime in una capacità inusuale nell’affrontare le sfide di tutti, vivere i drammi personali e le difficoltà di questo periodo di pandemia con volto lieto, come esprime Dante nel III Canto dell’Inferno «e poi che la sua mano sulla mia pose / con lieto volto, ond’io mi confortai, / mi mise dentro alle secrete cose».
Le pagine che seguono raccontano di questa fioritura dell’umano, di persone che, confortate dal lieto volto di una umana compagnia, sono aiutate a entrare nella profondità delle inaspettate
vicende della propria vita e lì a scoprire un bene che attendeva solo di essere riconosciuto. Come Matteo e Lucia che, dopo la nascita di Maria Elena, si trovano a vivere un quotidiano confronto con la disabilità. Oppure Antonello e sua moglie, che raccontano del distacco vissuto verso il figlio accolto in affido temporaneo per il quale il tribunale ha individuato una coppia per l’adozione. Ma è anche l’esperienza di chi tra noi si sta coinvolgendo con altre realtà associative nella realizzazione del progetto Confido: incontrando decine di coppie desiderose di approfondire la strada dell’accoglienza famigliare, non può non raccontare della compagnia che sostiene la propria vita e di ciò che la genera.
Sono questi i nostri volti. Storie di chi è chiamato a vivere come tutti un tempo che, attraverso inevitabili fatiche, offre una prospettiva nuova, come ha ricordato la ministra Bonetti durante l’incontro citato, in cui «abbiamo dovuto imparare la distanza, ma paradossalmente […] che proprio questo era lo spazio dell’altro e della relazione». Relazione in cui si realizzano i desideri e la libertà di ciascuno, perché «è nella relazione che ci si compie», come aveva detto qualche settimana prima agli Stati Generali della Natalità. Un tempo in cui si può ascoltare una buona notizia: «c’è una vita per la quale vale la pena spendersi».
Una vita a cui dedicarsi perché, come ricorda papa Francesco nella lettera apostolica Patris corde, «ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà».
E nell’approfondire le dinamiche di questa relazione generativa, padre Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio Nazionale della CEI per la Pastorale della Famiglia, ci ha rilanciato nel compito
di testimoniare la bellezza di essere famiglia, capace di accogliere e amare la vita dell’altro in tutta la sua grandezza, ma anche in tutte le sue contraddizioni e fragilità.
Non c’è bisogno più grande in fondo, per la vita di ciascuno, di sapere che questo amore è possibile e sperimentabile.
Luca Sommacal
«Sai mamma, la mia vita è spaziosa!»
«Vuoi dire spaziale!?»
«No! Spaziosa!»
«Cosa intendi dire?», chiede Giulia a suo figlio.
«Che nel mio cuore c’è posto per tutti», risponde Luca.
Luca soffre di una tetraparesi. Ha otto anni e da quattro è in affido a casa di Giulia ed Enea. Tempo fa, nello svolgere un compito in cui gli viene chiesto di esprimere un pensiero da inserire in un diario, scrive: «Io sono nato e sono amato». La semplicità di questo breve racconto, bene esprime il tema che ci siamo dati come aiuto per il cammino di quest’anno e che questa Lettera Periodica vuole documentare: Tu, sorpresa alla mia vita. Nell’accoglienza l’audacia di un incontro.
È lo stupore di essere oggetto di un amore che ridesta la coscienza di un bambino, che allarga il cuore e rende capaci di incontrare e abbracciare chiunque. Per Luca, per i suoi genitori affidatari e per tutti noi.
Un “tu” che ama e che svela quel “Tu” che come una sorpresa incontra la nostra vita. È un riconoscimento che attraversa tutta la drammaticità e le contraddizioni che spesso le esperienze dei nostri figli accolti manifestano. E che chiede una compagnia umana, concreta, che possa sorreggere la portata di tale sfida.
Di tutto questo abbiamo dialogato lo scorso novembre con i responsabili della nostra Associazione, collegati in videoconferenza dall’Italia e dall’estero, e don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Il momento particolare che stiamo vivendo ripropone, in forme per alcuni aspetti più violente, lo stesso dramma che abbiamo vissuto la scorsa primavera. «Eppure, dentro la tempesta, ci siamo sorpresi a riconoscere l’altro così essenziale alla nostra vita.» Tante sono state le testimonianze che hanno spiegato questo «eppure» come la sorpresa di una grazia che continua ad accadere, pur vivendo le paure e le insicurezze di tutti, spesso amplificate dal disagio dei nostri ragazzi.
Ed è proprio il disagio, la paura dei nostri figli che svela tutta la nostra fragilità di fronte alle incombenze della vita. Grazie a loro siamo messi di fronte all’origine di quel disagio che è anche il nostro: la paura di essere abbandonati, la paura del nulla. Come racconta il figlio, ormai adulto, di una coppia di amici: «La mia ribellione, la rabbia con me stesso e con il mondo, partiva principalmente dalla paura! Quale paura?Dell’abbandono! Ma poi ho capito che questo guardare solo al mio passato e al mio male non mi permetteva di essere felice! Allora ho iniziato un percorso: ho iniziato a guardare il mio presente, voi che siete sempre presenti e che non mi avete tenuto stretto a voi, che mi avete lasciato libero di sbagliare, mi avete detto “ora è bene che tu prenda le tue responsabilità”. E questo ha permesso di guardarmi e di pensare anche a un futuro».
Ma «che cosa regge davanti alle ferite?», ci ha ricordato don Carrón, «che cosa vi sostiene? Come possiamo viverla [questa circostanza così difficile]? Non potremmo senza la luce di questa compagnia […] che risponde alla paura profonda che porta a ribellarsi […]. È la certezza di non essere abbandonati». Ma «dove può poggiare questa certezza? Solo se possiamo vivere di questa esperienza: “Anche se tuo padre o tua madre ti avessero abbandonato, Io non ti abbandonerò mai”. Possiamo farci compagnia, anche in mezzo alle ferite che abbiamo, possiamo reggere davanti a tutte le sfide, soltanto se viviamo una speranza poggiata su qualcosa di presente, così fragile come la nostra compagnia, ma che è il segno della Sua presenza».
Così diventiamo capaci di un’audacia inaspettata. Come il pellegrinaggio dello scorso ottobre con l’Arcivescovo di Milano che, trasmesso via satellite, ha permesso a tutti i nostri amici in Italia e nel mondo di vivere un momento di comunione e preghiera altrimenti impossibile, facendo conoscere la nostra esperienza a molta gente a noi sconosciuta. Oppure l’apertura in Italia e in Spagna ad altre realtà famigliari e associative anche molto lontane dalla nostra storia, con le quali abbiamo cominciato a collaborare in una progettualità stimata e riconosciuta anche dalla pubblica amministrazione. O sempre in Spagna, il bellissimo progetto presentato all’Encuentro Madrid di una visita digitale guidata che ripercorre l’esperienza dell’accoglienza rappresentata nelle opere d’arte del Museo del Prado.
Ma soprattutto l’audacia di esporci, con tutte le nostre domande e limiti all’incontro con l’altro, diventando, quasi senza accorgercene, testimonianza dell’azione di una grazia che ci raggiunge e ci trasforma, come racconta un amico: «Poi improvvisamente manifesto la mia sofferenza di padre. Un amico che mi ascolta attentamente mi “spiazza” del tutto dicendomi: “Sono affascinato dalla tua posizione, sono attratto da questa tua libertà e da questo bene per tuo figlio, non ti senti schiacciato. Io sarei andato fuori di testa al tuo posto. Vorrei sapere come fai e vorrei capire meglio. Si comprende benissimo la tua esperienza in Famiglie per l’Accoglienza”. Ho subìto un fortissimo contraccolpo. Ero giunto con il desiderio di “vuotare il sacco” ed essere aiutato, ma ne sono uscito come testimone di una realtà che si impone». Testimoni di una realtà che si impone, che si esprime in una libertà e in una letizia altrimenti impensabili. Questa è la responsabilità a cui siamo chiamati. Come ci ricorda papa Francesco in un recente articolo comparso sul Corriere della Sera, commentando un brano tratto da Il portico del mistero della seconda virtù di Charles Péguy:«C’è un […] tratto distintivo nell’azione del cristiano […]. È una punta di letizia che resta sempre, magari a volte sottotraccia, anche di fronte alle esperienze più negative e dolorose. È la compagnia di una Presenza che non dipende in ultima analisi dalle circostanze esterne, ma è donata, appunto; una familiarità con Gesù […]. Radice di una speranza di cambiamento che Charles Péguy vedeva come la virtù bambina che cammina quasi nascosta tra le gonne delle due sorelle più grandi (la fede e la carità) ma che in realtà è lei, questa speranza bambina, a tenere per mano e sostenere.
“Per non amare il prossimo, bambina,
bisognerebbe tapparsi gli occhi e gli orecchi.
A tante grida di desolazione […].
Ma la speranza, dice Dio,
ecco quello che mi stupisce.
Me stesso.
Questo è stupefacente.
Che quei poveri figli vedano come vanno le cose
e che credano che andrà meglio domattina.
Che vedano come vanno le cose oggi
e che credano che andrà meglio domattina.
Questo è stupefacente ed è proprio
la più grande meraviglia della nostra grazia.
E io stesso ne sono stupito.
E bisogna che la mia grazia sia in effetti
di una forza incredibile.
E che sgorghi da una fonte
e come un fiume inesauribile.
Da quella prima volta che sgorgò
e da sempre che sgorga”
Luca Sommacal
Che cosa abbiamo vissuto quest’anno? Con quale consapevolezza affrontiamo il prossimo futuro? Al termine del nostro anno sociale, la risposta non è da ricercare in un bilancio di eventi e iniziative, ma nello spalancarsi del cuore di ciascuno di fronte all’ordinarietà e alla drammatica straordinarietà di ciò che è accaduto in questi mesi.
La carità non avrà mai fine. Nell’accoglienza, un bene che permane. Su questo tema abbiamo iniziato il nostro cammino quest’anno, offrendolo come spunto di dialogo tra noi e con amici cari alla nostra storia. Carità che si esprime come dono di sé che scaturisce dalla pressione della commozione vissuta verso ciò che Dio sta operando nelle nostre vite; e maggiore è la sfida che la realtà pone, maggiore è lo stupore di fronte a questa operosità.
L’aiuto tra di noi, la più importante compagnia che ci possiamo fare, consiste dunque nell’intercettare e assecondare quella grande esperienza di bene che si palesa quotidianamente di fronte ai nostri occhi.
Per questo a novembre, durante il nostro convegno nazionale, abbiamo rischiato un confronto con i nostri figli accolti che, ormai adulti, ci hanno raccontato come, attraverso le fatiche e le conquiste delle loro storie, spesso drammatiche, abbiano fatto esperienza di un bene che li accompagna tutt’ora, come dice una di loro: “Questo è il bene. Qualcuno che ti aspetta, che aspetta me, cioè dice: «tu sei importante»”. Per questo abbiamo deciso di raccogliere i dialoghi di quei giorni in un libro: perché queste storie potessero essere conosciute.
Un bene che è stato duramente sfidato durante l’emergenza sanitaria. Abbiamo sospeso i nostri incontri, abbiamo vissuto momenti di difficoltà e qualcuno di noi anche di dolore. In un periodo di una intensità inaudita, abbiamo sperimentato secondo nuove forme la famiglia, il lavoro e i rapporti di amicizia, soprattutto i più necessari. In tutto ciò, siamo stati costretti a guardare all’essenziale, come ci ha ricordato Papa Francesco il 27 marzo in piazza San Pietro: “E’ il tempo del nostro giudizio, il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”.
E così, abbiamo continuato ad accompagnarci, sfruttando modalità e strumenti messi a disposizione dalla tecnologia. In varie città abbiamo organizzato, in videoconferenza, momenti di mutuo aiuto e di supporto a famiglie in difficoltà, minicorsi e incontri pubblici; abbiamo condiviso sul nostro sito e sui social esperienze, racconti, recensioni di libri e film. Un cuore indomito che ha cercato – e cerca – insistentemente, senza mai fermarsi, ciò che serve per vivere.
Non abbiamo smesso di dialogare con realtà amiche e, cogliendo l’invito del Forum delle Associazioni Familiari, abbiamo coinvolto amici e conoscenti in un lungo applauso che ha attraversato tutta Italia, ringraziando le famiglie del nostro Paese, che tanto hanno collaborato ad affrontare questa pandemia. Nelle nostre case, alcune segnate dal contagio, altre dall’impossibilità dei figli in affido di incontrare la famiglia di origine, altre ancora semplicemente costrette a condividere gli spazi tra infinite call di lavoro e lezioni scolastiche online dei figli, abbiamo sperimentato quanto l’accogliere e il sentirsi accolti sia fondamentale per vivere, e quanto questa dimensione sia esperienza di tutti. E’ di una certezza affettiva che abbiamo bisogno. Perché solo un legame genera un soggetto: qualcuno che ama la nostra vita e a questo legame la nostra libertà aderisce, scommettendo sul bene che intravede.
Su questi temi abbiamo dialogato in video conferenza lo scorso giugno con i responsabili della nostra Associazione e Davide Prosperi, Vicepresidente della Fraternità di Comunione e Liberazione.
E’ una appartenenza che genera un soggetto nuovo, capace di una creatività inusuale: mosso da un bisogno, non si limita a tentare di risolvere il particolare, ma introduce un orizzonte totale, universale. In questa prospettiva si pone la nostra opera: il contributo che possiamo portare alla società civile e alla storia è la testimonianza del bene che già stiamo vivendo, e che ci rende sempre più liberi e audaci nell’incontrare e condividere la vita con chiunque.
Le storie e gli interventi raccolti in questo numero ci permettono di entrare nel vivo dell’avventura vissuta quest’anno e ci introducono ai prossimi appuntamenti dell’estate come il Meeting di Rimini, rilanciandoci ad affrontare con curiosità e certezza il tempo che verrà.
Luca Sommacal
Accoglienza, un bene che permane” – Lettera Periodica n. 108 – Dicembre 2019
«Sono stato lontano per tanti anni; prima non vedevo l’ora di compiere 18 anni per andarmene dall’affido; me ne sono andato, poi la droga, la comunità, il carcere e quella lettera: “Noi ci siamo. Se vuoi chiama!”. E ho chiamato. Ora per la prima volta posso dire che sono i miei genitori». Si fa silenzio tra i 350 partecipanti all’ultimo seminario nazionale di Famiglie per l’Accoglienza pochi giorni fa. Un silenzio che dice quanto una parola racconta un fatto che attendevamo dal profondo del cuore, quanto riapre in ciascuno una speranza. A parlare è un giovane sui 25 anni, in affido da quando ne aveva 10, con una storia dolorosa alle spalle, tratteggiata sui tatuaggi del braccio.
Un altro racconta che è andato via anche lui, scappato da un abbandono, dall’amore della famiglia adottiva, dalla scuola, dalla vita. Ha gridato: «Sono arrivato ad odiare chi mi voleva bene, perché mi prometteva qualcosa che il male aveva vinto». Invece il bene ricevuto ha vinto nel tempo: come un seme è maturato nella terra della sua inquietudine e piano piano gli ha permesso di ritrovare se stesso. Ha detto: «Odiavo i miei genitori adottivi, che erano bravissimi, ma io odiavo la vita e loro erano lì accanto a me e scaricavo su loro il mio odio. Oggi riconosco i passi che mi hanno accompagnato e sostenuto, e loro ci sono, ci sono come genitori nella mia vita».
I nostri figli accolti, ora grandi, in tanti modi ci testimoniano quello che abbiamo messo a tema quest’ anno e che vogliamo riscoprire come esperienza: la carità non avrà mai fine, nell’accoglienza un bene che permane. Dopo tanti anni di Associazione, con tante storie che vengono da lontano (qualcuno è diventato nonno adottivo o affidatario) è interessante verificare se il bene permane nell’accoglienza, come è accaduto un compimento nella nostra vita e in quella di chi abbiamo accolto.
Un cammino da vivere con lealtà e che prende forme e strade nuove. «Con tre figli pensavo di essere a posto. Un giorno, accarezzandomi il pancione del mio quarto figlio, ho fatto esperienza per la prima volta di cosa fosse l’accoglienza. Non lo sapevo ma in quel momento avevo aperto il mio cuore all’adozione, all’affido, all’ospitalità. Così stando in Famiglie per l’Accoglienza abbiamo accolto una bambina con la sindrome di Down, la nostra principessa speciale, e ora abbiamo iniziato l’avventura di una nuova casa famiglia». Così ha raccontato un’amica. E un altro ha detto: «Nonostante i nostri limiti ci siamo accorti che attraverso noi è passato quell’amore che abbiamo ricevuto dal Padre in abbondanza e che abbiamo riversato sul nostro figlio affidatario. Abbiamo imparato a guardare con occhi diversi la realtà dei ragazzi che sbagliano: non sono più dei disgraziati, ma persone che valgono più degli errori commessi, creati, come me, dall’amore di Dio».
Nei racconti traspare una pazienza, una capacità di ripresa indomite; un sacrificio e una speranza, che non sono frutto di una nostra capacità, ma continuamente ridonate e sostenute nella nostra compagnia. «Non occorre altro che il tempo e il paragone con il cuore per vedere cosa è vero. E perché dura? Perché corrisponde alle esigenze del cuore». Così abbiamo scritto nel “filo rosso”, il tema principale di quest’anno, che desideriamo scoprire come esperienza. Desideriamo ritrovarci un po’ meno prigionieri della misura, dei bilanci, dei sensi di colpa. Desideriamo scoprire che la carità non avrà mai fine, perché nasce e rinasce, istante per istante, dall’amore di Dio che si dona e fa esistere il nostro niente, si commuove per la nostra meschinità. Desideriamo cedere alla ricchezza che chi accogliamo porta nella nostra vita e accorgerci che l’accoglienza piano piano diventa dimensione della nostra vita. Ha detto un’amica: «Il bene che resiste è che l’accoglienza è diventata dimensione di fronte a tutto: la malattia, il marito, la lontananza dei figli, l’imprevisto, che sempre mi ha portato qualcosa di più grande».
Aiutiamoci a custodire il desiderio del nostro cuore come desiderio dell’infinito che alberga in ogni uomo, senza nascondere nulla, neanche il nostro male e la nostra debolezza (o quella dell’altro). Impariamo ad accettare che Dio ama la mia debolezza e attraverso essa vuole salvarmi. Ecco quello che dura nel tempo e che desideriamo riscoprire intensamente quest’anno. Dentro i passi, le gioie, le ferite.
Al nostro raduno gli occhi brillavano, a volte fino alle lacrime, non solo per le testimonianze e le parole vere sentite, ma perché in questi anni sono diventate carne, “nostre” come esperienza. Siamo ricchi di quello che abbiamo vissuto e visto accadere. Questo desideriamo portarlo a tutti, là dove siamo, grati di un luogo, di una storia piena in cui siamo continuamente accolti.
L’opera ha questo scopo: sostenere il cammino buono di chi accoglie e di chi è accolto e testimoniare nel mondo la gratuità. È una amicizia operosa e anche ordinata. Per 16 anni mi sono trovato a condurla come presidente. Ho avuto il dono di vedere tante persone, testimonianze, iniziative, e di ciascuna, di ciascuno di voi sono grato. Poi ho visto crescere una corresponsabilità, una partecipazione e una libertà. Oggi mi accorgo che può essere un bene per tutti noi che un altro si assuma questo compito e sono grato a Luca (e anche alla sua famiglia) di aver accettato. Credo che ognuno abbia colto quanto è preziosa la nostra unità guidata e cerchi di amarla. Anche in tutto questo si documenta il bene che permane.
«La permanenza della novità non è assicurata da una tenacia nostra di coerenza o da una intelligenza dei nostri tentativi, è data da qualcosa di oggettivo che già c’è. Cristo è risorto».
Ascoltando, guardando, seguendo, vivendo, la vita si riempie di certezza e di silenzio, come la sala dei 350 partecipanti: silenzio davanti al Signore che opera in mezzo a noi.
Marco Mazzi