Una paternità e maternità non cercate, una testimonianza
Nel settembre 1982 prestavo servizio civile presso un Istituto per ragazzi disabili. A novembre, nello stesso istituto, è arrivata a lavorare come fisioterapista Nadia, oggi mia moglie. Quasi contemporaneamente nasceva una simpatia per un bambino di 11 anni, Remo, cerebroleso, che stava sempre in un angolo, da solo. Io e Nadia ci siamo innamorati e trascorrevamo le domeniche insieme; ci piaceva stare insieme, e questo dilatava il nostro sguardo a Remo che in qualche modo ci chiedeva di stare con noi.
Una domenica lo abbiamo invitato ad uscire con noi, per mangiare un gelato insieme, poi un’altra volta e un’altra volta ancora…
Tre anni dopo, ci sposavamo e la domenica a casa nostra con noi c’era Remo… Quando la sera lo riaccompagnavamo in istituto, cambiava fisionomia. Abbiamo così detto “sì” alla possibilità di tenerlo con noi in tutti i fine settimana. Un semplice “sì” a ciò che ci sembrava chiedere la realtà stessa, l’evidenza di un rapporto buono: Remo dimostrava di star bene con noi, voleva stare con noi. Nei due anni seguenti, Remo ha cominciato ad aprirsi, a giocare con le cose, ad essere contento di vedere gli amici entrare in casa.
Nel maggio del 1988 nasceva la nostra prima figlia: avere mia figlia tra le braccia era l’esperienza più bella che mi fosse mai capitata. Dopo qualche giorno arriva il solito venerdì, in cui si impone la presenza di Remo, ma questa volta come un’obiezione, come uno strapparmi mia figlia dalle braccia. Gli amici, nel tempo, la possibilità di riflettere mi hanno poi aiutato non solo a superare quella difficoltà, ma a comprendere ed abbracciare una realtà più grande, più liberante: Remo, la presenza di Remo, la difficoltà ad accoglierlo in quel periodo, mi aiutavano a comprendere che mia figlia in realtà non era in modo assoluto figlia “mia”. Io ero suo padre, lei mia figlia, ma “suo” e “mia” nel senso di compito, di responsabilità.
Così dal giugno 1988 Remo è in casa nostra: da quattro anni è in carrozzella.
Dopo la prima sono arrivate altre due figlie. Sempre attento a queste sorelline, ci chiamava quando piangevano: cominciava a vivere lui stesso un rapporto d’attenzione verso gli altri. Ogni mattina Remo ti richiede un’ora per alzarlo, lavarlo, vestirlo, dargli da mangiare. La sua sopravvivenza, la sua vita stessa dipende da te che sei lì ad accudirlo. Per noi ora è una persona che, nella nostra famiglia educa a uno sguardo diverso, che stiamo imparando ad avere su di noi, tra me e Nadia, tra noi e le nostre figlie. In questo ci sentiamo figli di nostro figlio: Remo.
Giuseppe di Caravaggio