Assistenza a famiglie fragili: l’incontro con suor Fulvia e suor Cristina
Il 7 novembre scorso, famiglie che vivono l’esperienza dell’affido, o che sono interessate a conoscere di più, hanno incontrato suor Fulvia Ferrante (nella foto qui sotto) e suor Cristina Bertola, Suore della Carità dell’Assunzione, suorine di Martinengo. L’incontro con suore che si occupano di assistenza a famiglie fragili e che gestiscono un centro diurno per ragazzi delle medie e dei primi anni delle superiori è stato provocante, toccante, prodigo di spunti di riflessione.
Definiscono così il loro lavoro: “Incontriamo il bisogno che c’è, condividendo attraverso gesti semplici e concreti di cura, anche molto quotidiani, un senso più profondo del vivere”. E’ questa la stessa esperienza di molte famiglie della nostra associazione. Ne emerso un dialogo stimolato dalle domande di alcune famiglie presenti. Qui alcuni appunti
Domanda di una famiglia: Accogliamo un ragazzo di 14 anni e sembra non avere nostalgia della sua famiglia d’origine. E’ come se avesse deciso di avere solo un atteggiamento distaccato con noi. Noi capiamo che è possibile un cambiamento, suo e nostro, a partire dal nostro sguardo nei confronti della sua mamma.
Risposta di suor Fulvia e suor Cristina: I ragazzi possono cambiare guardando come noi ci rapportiamo coi loro genitori. Noi condividiamo, penso, una stima dell’altro ma questa posizione è solo una formula o è vera? L’altro è carico per noi di Mistero. Rispetto ai rientri periodici o alle visite alla famiglia d’origine, si costruisce un pezzo alla volta seguendo il ritmo che i ragazzi hanno, e lasciando che nel tempo possano dare un giudizio, con pazienza. Se il contesto tiene, un po’ alla volta è possibile accettare la propria famiglia d’origine, arrivando anche alla libertà di poter dire alla mamma i limiti che ha.
Come si possono ricucire i rapporti è opera del Mistero, anche se a volte questo, drammaticamente, non avviene. E’ sacrosanta la libertà: loro, nostra e di Dio. Ed i rapporti si dispiegano a partire da questa libertà riconosciuta. Se i ragazzi chiudono la profonda possibilità di relazione è importante che non facciamo anche noi lo stesso. Il punto è che noi non dobbiamo pensare di – noi in quanto tali – il bene di questi ragazzi ma di rimanere pronti quando decideranno di aprirsi.
A noi sta la semina perché questo possa accadere. Stimare: riconoscere che la mamma c’è perché è di Dio. La stima non è un’aggiunta. Lei è come è, e per i suoi limiti oggettivi il figlio è stato allontanato. Questi genitori così segnati e provati, con una ridotta capacità genitoriale, per noi sono così diversi. Domandiamoci di guardarli come li guarda Dio!
Ci sono a volte situazioni così difficili, che ci sembrano impossibili da portare. Ad esempio seguivamo un bambino di 4 anni particolarmente problematico, con mille paure e che aveva le visite settimanali col papà che continuava a tormentarlo aggiungendo le sue proprie paure e peggiorando ulteriormente la situazione. La nostra Superiora ci ha richiamato: “Questa è una circostanza data da Dio, che Dio chiede a lui e chiede a te, finché il giudice e i servizi decideranno una sistemazione diversa”. Noi adulti abbiamo la possibilità di portare certe fatiche: il bene incontrato e ricevuto ci consente di portare il peso e di domandare di poterlo portare anche per il bambino, così sofferente.
Questa misura così grande ci chiede un lavorone! Le circostanze sono occasioni di disponibilità ad una misura per cui siamo fatti ma che non è la nostra; chiedono un lavoro per far entrare un Altro così diverso da noi, nel quotidiano e nelle nostre scelte di vita. Le circostanze spingono a domandare continuamente di poter guardare questi genitori con un po’ della misericordia di Gesù.
Dobbiamo stare attenti anche ad evitare un equivoco sulla parola stima. Stima è dare il valore, non è stimare l’altro perché è perfetto. Guardiamo semplicemente le caratteristica di questa mamma (come ciascuna persona…): è voluta perché è stata creata, è stata voluta come la “sua mamma”, questa mamma è arrivata ad affidare suo figlio. Questi ragazzi in qualche modo sono stati comunque “custoditi” dai loro genitori. E per noi custodire questi figli vuol dire custodire anche la loro famiglia. Allora l’attenzione va non verso lo scoprire se la famiglia d’origine può essere un bene per me, ma verso quello che il Signore chiede a me.
Domanda: A volte abbiamo l’impressione che tutto il nostro lavoro educativo non porti a nessun risultato.
Risposta di suor Fulvia e suor Cristina: Se abbiamo l’impressione che questi ragazzi siano finiti in una palude dove possono solo sprofondare, l’importante è mettere dei grossi sassi in mezzo alla palude e sperare, e pregare, che i bambini poggino il loro peso sui sassi, per non sprofondare.
Domanda: Nel mio affido, dove la mamma è molto presente, ho scoperto che io e lei abbiamo un desiderio in comune: che il figlio sia felice. Questa scoperta mi permette di riprendere sempre un cammino più lieto: abbiamo un cuore in comune. Però vediamo una storia difficile che si ripete per generazioni e ci domandiamo se ci sarà mai una possibilità di riscatto.
Risposta di suor Fulvia e suor Cristina: La storia di affettività vissuta nella famiglia affidataria può fondare delle capacità genitoriali che restano nel tempo! La speranza è che c’è Chi ce l’ha in mano. È come se Dio ci dicesse: “Scusa, ho da fare 10 minuti, puoi prenderti cura di questo bambino che poi me lo ripiglio?”. Questo è il nostro compito, il tuo compito: quei “10 minuti”.
Se guardi l’altro per la misura che hai tu, non lo sopporti. Il punto è la pazienza del tempo. Ci aspetta un lavoro che è un cammino dello sguardo. Siamo chiamati non a correggere, a voler a tutti costi modificare, ma siamo chiamati a stare. Con il cuore aperto.