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Mi prepari il latte che facciamo colazione insieme?

È domenica mattina, Silvia scende le scale e trova la casa allagata. E suo marito Sante non c’è. Poi arriva una telefonata che apre uno spiraglio tra le nubi di una giornata cominciata nel modo peggiore. È Federico, undici anni, che la famiglia di Sante e Silvia accoglie nei fine settimana.

latte Silvia e Sante hanno tre figli di dodici, dieci e sette anni. Da qualche tempo hanno incontrato l’Associazione Famiglie per l’Accoglienza. «Ci hanno sorpreso», racconta Silvia, «era gente commossa da una bellezza incontrata, non solo piena di cose da fare e da mettere a posto, come normalmente siamo noi con i nostri figli. Quando qualcuno mi chiede com’è andata la giornata, la risposta è un conto di quante ore di lavoro, quanti chilometri percorsi, quanti giri per la ginnastica dei figli… Per questi amici invece le circostanze della vita sono sostenute da una grande bellezza».

Poi un giorno un’amica li invita a Ca’ Edimar, il villaggio padovano che accoglie ragazzi che per varie ragioni non possono stare con le famiglie di provenienza. «Non ci ero mai entrata», dice Silvia, «e come arrivo mi sale un forte disagio. Quei bambini hanno l’età dei miei figli. Ma per i miei figli sono degli estranei. Il mio piccolo si avvicina e mi stringe la mano. Il disagio si fa più forte, quei bambini non ce l’hanno la mano della mamma da stringere. Con le lacrime in gola per tanto dolore innocente entro a Messa e lì don Federico abbraccia con il suo sguardo lieto tutti quei ragazzi e dice loro che la vita è bella: tutto è per una bellezza. Non ci sono fatiche o dolori che possano impedirti di riconoscerla. Che cosa grande! Ho invidiato il suo sguardo certo davanti al dolore e l’ho desiderato per me». La sorpresa diventa domanda. «Io desidero poter guardare così mio marito e i miei figli. Desidero poter dire a mio figlio: “Vivi senza paura perché la vita è una cosa grande, è un dono di grazia”».

Di lì a poco Mario Dupuis, che a Ca’ Edimar vive con la sua famiglia, propone a Silvia e Sante un’accoglienza semplice: si tratta di tenere un bambino una domenica sì e una no. Arriva così Federico, undici anni. «Il primo punto evidente è che è un estraneo, con abitudini e modi di fare diversi dai nostri. La seconda evidenza è che il nostro compito è custodirlo. Le prime preoccupazioni sono: si farà male? scapperà via? si picchierà con i nostri bambini? Così li guardo mentre sono insieme e mi viene da chiedermi: ma in fondo il mio compito con questo bambino è diverso dal compito che ho con i miei figli? Perché i miei figli mi sono dati in custodia da Uno che me li affida, neanche loro sono miei. È immediato riconoscere che la vita di Federico non è mia, ma non è mia neanche quella dei miei figli, di mio marito, neanche la mia vita è mia».

La domanda diventa riconoscimento. «Una domenica mattina mi alzo, scendo in cucina e trovo tutto allagato. Lo scarico era intasato da una settimana e mio marito non se n’era occupato. Piena di rabbia, mi metto a tirare su l’acqua. Nel pieno del lavoro suona il cellulare, è il numero di Sante. Rispondo rabbiosa: “Cosa vuoi?” e all’altra parte: “Ciao!” È Federico. Non mi ricordavo neanche che era domenica, non mi ero accorta che Sante era uscito. Altro che accoglienza. E Federico: “Ti devo dire due cose belle”. Lui a me! Era appena salito in auto e non stava nella pelle. “Una”, dice, “è che ho gli occhiali nuovi”. “Bene”, gli dico, costretta a staccarmi dalla ramazza. “E la seconda è che non ho fatto colazione”. “E che cosa c’è di bello in questo?”. “C’è che stiamo andando a prendere le brioches: mi prepari il latte che facciamo colazione insieme?”.

Ecco il riconoscimento: era lui che accoglieva me, non viceversa. Il Signore si piega su di me e mi prende. Non sono io che accolgo questo bambino, è il Signore che attraverso lui accoglie me».

Eugenio Andreatta