«Ho smesso di fare il tifo per il bene di mio figlio, e ho cominciato a fare il tifo per lui»
Domenica 19 aprile a Chioggia (VE) si è tenuta la giornata regionale delle Famiglie per l’Accoglienza, che ha radunato un centinaio di persone da tutto il Veneto nella parrocchia della Madonna della Navicella. Alcune testimonianze
La testimonianza di Stefano Giorgi, direttore generale della coop sociale In-Presa di Carate Brianza, è stata preceduta dalle testimonianze “concatenate” di Silvia di Verona e Letizia di Rovereto (TN). Concatenate perché Filippo (nome di fantasia), accolto in casa da Silvia e Jimmy dai 9 ai 12 anni, per permettere un’attenzione e una cura maggiori è stato poi ospitato da Letizia e da suo marito Leonardo.
«Una sera lo sento singhiozzare sul suo letto», racconta Silvia non senza commozione, «mi avvicino e gli chiedo cos’ha». «Un peso così grande che mi sento come una nave che affonda», la risposta del ragazzino. «Un po’ di questo peso vorrei portarlo con te», è quello che Silvia riesce a dire. Un momento chiave, che segna i mesi successivi, pur dentro tutte le difficoltà di un bimbo che percepisce il mondo come nemico, anche se con il passare del tempo la morsa si allenta.
Quando però, d’accordo con i servizi sociali, per Filippo si delinea l’ipotesi della famiglia trentina, le cose sembrano tornare come prima: «Sono spaventato e stufo che gli altri decidano per me», è la sua reazione. E anche qui Letizia e Leonardo provano a fare compagnia a questa fatica oscura, non sempre decifrabile. «Mi sono trovata addosso una pazienza che non conoscevo», racconta Letizia. Ora, dopo i primi mesi turbolenti Filippo sente questa nuova famiglia come un posto dove riposare, o anche semplicemente dove essere libero di sfogare la rabbia che porta ancora con sé.
Certo non è semplice guardare con distacco i ragazzi che ci sono affidati, men che meno i nostri figli. Giorgio è fresco del matrimonio del terzo figlio. Una frase del celebrante, rivolta ai neo sposi, lo ha colpito particolarmente. «Oggi i vostri genitori vi stanno facendo un grande regalo», ha detto don Michele nell’omelia. «Pregheranno in ginocchio il Signore perché non torniate da loro». Singolare: chiedere la grazia che vengano strappati da sé i propri figli. Ma solo dentro questa assenza di possesso (che cristianamente si chiama verginità) li possediamo veramente.
Il direttore di In-Presa racconta come lo ha capito, una volta che un suo figlio ne ha combinata una grossa a scuola, al punto che il preside ha richiesto il suo intervento urgente. «Una brutta situazione», dice Stefano al figlio riportandolo a casa. «Sì papà, hai ragione». «Ma cosa si può fare in questi casi?». Farsi aiutare, è la risposta del figlio, ci vuole una mano che ti tiri su. Risposta quasi commovente. Se non fosse che poi aggiunge che avrebbe afferrato la mano di chiunque al mondo, tranne quella del padre. «Da allora paradossalmente», commenta Giorgi, «ho cominciato a guardare i ragazzi a scuola come se fossero miei e mio figlio come se non fosse mio. Ho smesso di fare il tifo per il “bene” di mio figlio, per le cose che io identifico come buone, e ho cominciato a fare il tifo per lui».
Guardare i ragazzi ad uno ad uno, così come sono. Questo porta a concepire anche la scuola in modo diverso. Non un feticcio indiscutibile, ma uno strumento da plasmare secondo le esigenze dei ragazzi. Tanto è vero che In-Presa è il contrario di una scuola tradizionale, mettendo insieme formazione professionale, inserimento lavorativo, orientamento, sostegno scolastico, aggregazione, allo scopo, racconta Stefano, «di accompagnare i ragazzi a conoscere positivamente sé e il mondo dentro un legame affettivo». E con l’ausilio di trecento tra artigiani e imprenditori: meccanici, elettricisti, falegnami, gastronomi, pasticceri, carrozzieri, florovivaisti, tipografi… «Come i maestri di bottega di un tempo, perché non c’è nessuno che non sia degno di apprendere».
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