“Si riceve molto di più rispetto a quel che si dà”
Il racconto della convivenza del Direttivo della Svizzera con le rispettive famiglie sul passo del Sempione
Le famiglie dell’associazione presenti nella Svizzera francese e italiana si sono ritrovate per un weekend di convivenza all’Hospice-Simplon, una struttura incastonata come in uno scrigno tra il cielo e la cima della montagna, in cui dal 1831 i Canonici del Gran San Bernardo accolgono le persone offrendo loro una vera oasi di contemplazione, lontana dai rumori e dal ritmo frenetico della vita contemporanea.
«Qui il Cristo sia adorato e nutrito» recita il motto di San Bernardo che i quattro religiosi oggi residenti nella struttura continuano a fare loro e a testimoniare nell’accoglienza dei pellegrini.
La mattina di sabato 5 ottobre, dopo un primo momento di preghiera, le famiglie hanno dialogato insieme a Luca Sommacal a partire dalla lettura del Filo rosso 2024/2025, che quest’anno pone l’accento sulla speranza. Nel suo intervento, Luca ha sottolineato come l’esperienza dell’accoglienza sia direttamente legata alla speranza, così come don Giussani la definiva, cioè “la certezza sul futuro in forza di una realtà presente”.
La speranza non solo può essere vissuta anche dentro il dolore che certe storie di accoglienza portano con sé, ma ne diventa il vero sostegno e centro, concretizzandosi nel perdono senza limiti e misura delle persone accolte.
Quando viviamo un amore e un perdono senza limiti rispondiamo all’invito che lo stesso Gesù rivolge ai suoi discepoli, dicendo loro che si deve perdonare settanta volte sette, cioè perdonare sempre, all’infinito. E senza la pretesa di giudicare l’altro, senza porre un confine, appunto, alla misericordia che cambia la vita di ciascuno di noi: solo nel ricevere un perdono così, piccoli e adulti si possono sentire veramente amati. E liberi di amare a loro volta, di vivere una vita viva, di rischiare e anche di sbagliare.
Nel pomeriggio, dopo una gita nell’ambiente naturale che circonda l’Hospice-Simplon, le famiglie si sono coinvolte e impegnate in un’attività di Vision Board sotto la guida esperta di una professionista.
Ogni famiglia ha formato un collage ritagliando immagini e scritte prese da diverse riviste a partire dalla domanda: come vorremmo che fosse la nostra famiglia tra qualche tempo?
È stato interessante notare come anche i bambini, proprio grazie alle immagini, alla loro immediata leggibilità, abbiano facilmente rappresentato i loro desideri. Ma anche le domande legate al loro futuro. È nato così un dialogo costruttivo innanzitutto tra i membri delle famiglie stesse e poi tra le diverse famiglie.
Tra gli altri momenti condivisi durante i due giorni, sicuramente di grande valore è stata poi la testimonianza di Giuseppe e Domenica dell’associazione Fraternità di Crema.
Sposati da 48 anni, sono attualmente alla loro quarantesima esperienza di accoglienza. Inevitabile la domanda che è stata loro posta: qual è la convenienza di un’accoglienza così perseverante e anche così numerosa nel tempo?
In un botta e risposta che ha dato l’idea di un matrimonio intenso e vigoroso, i due coniugi hanno spiegato che da sempre hanno avuto il desiderio di fare della loro famiglia qualcosa di grande che potesse durare nel tempo. Che il loro ideale di famiglia non era certo quello di «un marito e una moglie che si mettono le pantofole o seguono le attrazioni del mondo».
Così, da giovani sposi, provocati dall’invito di don Giussani alle famiglie di aprire la propria casa all’accoglienza, iniziano ad ospitare dei ragazzi tossicodipendenti. Dentro quell’esperienza era chiaro che non bastava soltanto aprire la porta di casa a quei ragazzi, ma che occorreva un cuore aperto e libero, capace di amare l’altro senza limiti, anche dentro e nonostante tutte le sue brutture.
Da allora, tanti ragazzi, ragazze madri, tanti bambini con alle spalle storie difficili hanno fatto parte della loro famiglia, nella quale intanto erano arrivati anche due figli naturali.
Nella conversione del cuore che queste esperienze hanno provocato, Giuseppe e Domenica hanno avuto sempre il coraggio di rischiare tutto. Come, per esempio, prendendo la decisione di licenziarsi entrambi dal proprio lavoro, stabile e sicuro, per aprire una cooperativa che potesse dare lavoro e restituire dignità ad alcuni ragazzi tossicodipendenti che nessuno voleva assumere. E nei momenti difficili che hanno fatto parte del loro percorso, di sfiducia e abbattimento, hanno capito che è Dio che opera. Anche quando si è stanchi. Hanno compreso che “o ti fidi di Dio in tutto e comunque, oppure ti fidi di quello che sei stato capace di costruire tu”. E dopo tanti anni e tanta vita vissuti nel dono di sé, è risultato chiaro per loro che l’esperienza dell’accoglienza non risponde innanzitutto al desiderio di un progetto educativo, ma piuttosto vive dentro una realtà profondamente affettiva: i bambini e i ragazzi che accogliamo, ci hanno testimoniato Giuseppe e Domenica, hanno bisogno di essere amati. Sempre, comunque e nonostante. E per far questo non è necessario essere dei super eroi, come a volte capita di essere guardati, a torto. Bisogna essere pienamente uomini. Cosa che si impara. Proprio anche attraverso l’esperienza dell’accoglienza. Per questo è conveniente aprire cuore e casa all’accoglienza: “perché si riceve molto di più rispetto a quello che si dà”.
Forse sotto questo cielo azzurro e dentro questa pace del Sempione, grazie agli amici con cui ancora una volta abbiamo condiviso un piccolo pezzetto della nostra avventura, ci è sembrato più chiaro quello che Gesù diceva ai suoi apostoli: “Vi ho fatti incontrare per farvi capire che cosa avete nel cuore”.