Un’esperienza di amicizia, una storia di popolo che fan dire “finalmente a casa”
L’incontro tenutosi il 2 marzo u.s. nell’aula Magna dell’università di Asti è nato dal desiderio di alcuni amici di far conoscere l’associazione Famiglie per l’Accoglienza alla città e di dialogare sul libro di don Giussani “Il Miracolo dell’ospitalità”. Intorno al tavolo erano presenti relatori eccellenti come Alda Vanoni, tra i fondatori dell’associazione e per vent’anni sua presidente, Luca Sommacal attuale presidente in carica e la famiglia Serena, astigiani e promotori dell’incontro.
La prima parte dell’incontro, alla presenza di un nutrito numero di persone, si sviluppa in un dialogo tra i relatori.
Inizia Alda Vanoni alla quale è chiesto di raccontare come sia nata l’associazione. Alla fine degli anni ‘70 si è sentita da parte dei giudici minorili e della società la necessità di rinnovare l’istituto dell’adozione e normare la forma di sostegno alle famiglie di origine, per la quale erano in atto diverse esperienze, per sostenere un minore di una famiglia in momentanea in difficoltà affiancandosi alla famiglia stessa (l’affido).
Nel 1981 arriva anche dal Comune di Milano che stava preparando un regolamento sull’affido la richiesta di un parere: “visto che gli affidi c’erano serviva dare una forma nuova, anche nel rapporto con le istituzioni. Ci siamo confrontati con Peppino Zola, un amico avvocato, che allora era consigliere al Comune di Milano, e lui ci dice: perché non fate un’associazione? Pensate, da una battuta di un amico presa sul serio è accaduto ciò che mai avremmo potuto pensare”.
E così il 18 maggio 1982 otto famiglie fondano l’associazione.
Fondamentale però è stata la compagnia e il confronto con don Giussani, da cui è nato anche il libro “Il miracolo dell’ospitalità”, che raccoglie alcuni degli incontri tenutosi nel corso degli anni insieme a lui.
Don Giussani li ha aiutati ad andare a fondo della propria esperienza, “rispettando il fatto che questo bambino non lo possiedo. Guardarci insieme e capire qual era il nucleo vero dell’accoglienza è stato importantissimo. Sarei stata una mamma ben peggiore senza l’aiuto di questi amici. Ho avuto però bisogno che questo richiamo mi fosse continuamente ripetuto, altrimenti mi perdevo.” Proprio questa compagnia tra famiglie è uno degli scopi principali dell’associazione.
A Luca Sommacal, invece, è stato chiesto di raccontare come nell’accoglienza si veda fiorire la famiglia e come essa possa diventare protagonista anche della vita sociale.
“Siamo una rete di famiglie che si accompagnano, buona per sé e per la società tutta… pensate partendo da quelle 8 oggi siamo più di 2000 famiglie. È una febbre di vita che si è diffusa in tutto il mondo e ci accompagniamo nelle accoglienze più varie. Negli ultimi anni abbiamo visto fiorire tante esperienze, piccole e grandi. Abbiamo tredici case famiglia, alcune famiglie con figli disabili si accompagnano in questo cammino, altre nell’accogliere i genitori anziani. In questi anni ci sono state anche le accoglienze di migranti e rifugiati. Siamo diventati anche punto di riferimento e dialogo in vari tavoli nazionali per l’adozione e l’affido, facciamo parte del Forum delle associazioni familiari”. Insomma tanti e diversi gli ambiti di vita sociale in cui l’associazione è presente.
Ma chi siamo? “Famiglie che hanno scoperto e riconosciuto il desiderio di aprire le porte di casa all’altro. Mettersi insieme, quindi, per aiutarsi e tenere viva la fiamma iniziale.
Solo se abbiamo coscienza di essere amati innanzitutto noi, possiamo amare, abbracciare e accogliere. È un segno di speranza nel nostro mondo, l’accoglienza dell’altro.”
Ma la prima accoglienza è sempre quella tra moglie e marito, poi dei figli e di chi si incontra ogni giorno.
In famiglia si vive il vero valore della persona, che non è legato alla performance, ma vale solo per il fatto che c’è e questo per la società attuale è un concetto rivoluzionario. La violenza attuale infatti nasce dal non riconoscere l’infinita grandezza dell’altro.
Uno dei punti su cui insiste don Giussani è che senza libertà non può esserci una vera accoglienza: cosa ha voluto dire per la famiglia Serena?
Inizia Elena a raccontare della loro esperienza, fatta di un matrimonio in età non giovanissima, figli che non arrivano e l’incontro per caso, “ma il caso non esiste”, con gli amici di Famiglie per l’Accoglienza. Iniziano a frequentare gli incontri del gruppo affido, ma poi un’amica osserva che dovrebbero provare ad approfondire il tema adozione e da lì parte il cammino che li porterà a percorrere la strada per incontrare quello che sarà il loro figlio adottivo. “Mai da soli, sempre accompagnati, sin dall’inizio, anche davanti alla porta del tribunale per presentare la disponibilità all’adozione. Ma il vero ballo non è il percorso con i servizi, ma avere in casa una persona che tutti i giorni sfida la nostra libertà. Ci ha obbligati a stare attaccati agli amici, come a una boa di salvataggio. Anche attraverso telefonate a mezzanotte. Questa amica mi ascoltava e mi sfidava sempre nella mia libertà. Non mi ha mai appesantita, sempre ricondotta alle ragioni.
Perché il Signore non ha un piano B per noi, ma sempre un piano A. Cioè sempre qualcosa che è per la nostra vita e la nostra felicità. Ma è stato semplice? No”.
Torna la parola libertà: “la mia libertà si è giocata sulla presenza di mio figlio in casa: questo suo modo di essere è stato più un aiuto a me, più di quanto io possa essere stata aiuto per lui. La mia libertà si è sempre giocata con la sua. Si può dire uno scontro continuo. Ma che grazia aver vissuto questo scontro.”
Conclude Stefano sottolineando come l’accoglienza sia sempre un momento di reciprocità. Privilegiato perché è evidente. “I nostri figli non sono nostri, ma anche noi non siamo dei nostri figli, ma siamo per loro. Si può sbagliare, io non sono un super eroe. Ma chiedo di avere occhi più assetati di senso e un cuore più libero per accogliere ciò che accade. Come dice la canzone di Gaber, la libertà è partecipazione, come condizione principale per partecipare nella vita.
Dopo questo primo momento di dialogo tra i relatori, si passa alla presentazione della mostra che due anni fa era stata portata al Meeting di Rimini e che dovrebbe arrivare anche ad Asti nell’autunno. Il titolo ‘Non come, ma quello. La sorpresa della gratuità’, nasce da un gesto di sana pazzia, dice Luca. “Cosa ci interessava far capire? Che siamo bravi o far conoscere il metodo che ha permesso di arrivare in tutto il mondo? Aprire la porta di casa tua all’Essere della vita che ti viene a visitare. L’idea è nata durante un dialogo con un’amica. È il Signore che riaccade nuovamente”.
Non come, ma quello che han vissuto all’origine del loro gesto. Si è chiesto, così, ad alcuni artisti di esprimere con la loro arte quello che vedevano accadere in alcune delle nostre famiglie. Cosa hanno visto? Il dolore e la fatica, ma anche il fatto che questa fatica non è l’ultima parola sulla nostra vita. Anzi è possibile una resurrezione, come si evince dal titolo dell’opera centrale della mostra fatta di vari elementi colorati in pvc che si intrecciano tra loro, tagliati, come feriti, attraverso cui, però, passa una luce che riflette tutt’intorno nella stanza vari colori.
Questi artisti han reso in arte i colori che sprigionano le nostre famiglie. “Perché l’ultima parola non è la fatica, ma la gioia. Il dolore che si trasforma in qualcosa di grande, che si può anche toccare”. E che riaccade proprio in quel modo originale.
Il dialogo continua poi approfondendo alcuni punti de “Il miracolo dell’ospitalità” dal tema della gratuità e del cambiamento di sé. Alda sottolinea come il tempo donato all’associazione sia per diventare più noi stessi, per poter guardare a chi incontriamo per il bene che porta. Siamo insieme sulla strada verso di Lui. È uno scambio di libertà.
Di nuovo il tema della libertà, ma per dire anche che ciascuno è responsabile di sé e dell’altro.
Poi si passa alla differenza tra inclinazione e vocazione, sottolineata in un passaggio del libro. Inclinazione come qualcosa che amo e so fare, vocazione come disponibilità a dire sì a ciò che vedo accadere nella mia vita, che magari non avrei cercato, come la sterilità. Una strada a cui decido di dare credito, attraverso la scoperta dei segni che aiutano a scoprire nel tempo cosa il buon Dio chiede. L’inclinazione, ad esempio, si capisce sul lavoro: faccio ciò che sono capace di fare, la vocazione invece è una chiamata, anche dentro passi incoscienti e per strade tortuose.
Ma cosa genera in un uomo e una donna l’ospitalità? La gioia e la pace che si vede vivere in chi già lo fa. Dentro una compagnia di amici. Fino a intravedere come quel tuo gesto di accoglienza sia un tenero pallore del gesto di Dio nel mistero della Trinità. Perché nell’ospitalità “dò tutto, non solo un pezzetto”, conclude Alda.
Al termine dell’incontro il saluto a sorpresa del vescovo di Asti, mons. Marco Prastaro, che scusandosi del suo ritardo è venuto per l’amicizia nata con alcune persone di Asti. Segno anche questo di una Paternità che accompagna la nostra strada, a volte piena di curve, ma con una direzione chiara.
Una familiarità imprevista e nuova tra le persone intervenute e quelle presenti in sala viene sottolineata da un commento finale di una amica: “dopo tanto tempo mi è sembrato di tornare finalmente a casa”.
Davvero è riaccaduto un fatto, non come, ma proprio quello accaduto nel 1982 tra quelle otto famiglie che avevano in comune il desiderio di capire di più come poter accogliere questi figli non generati, ma donati da un Altro alla loro vita.