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Accoglienza, audacia da supereroi?

“Dalla grazia scaturisce l’audacia, cioè da una Presenza diversa da noi, scaturisce, in noi, l’audacia… Non un azzardo fondato sulle nostre forze o sulla casualità, ma un’obbedienza attiva alle circostanze, segnata dalla speranza”.
Incontro con famiglie con figli accolti ormai grandi.
Cosa rimane nel tempo di questa speranza?

All’incontro online dello scorso 29 gennaio hanno partecipato molte famiglie in collegamento da Torino, Asti, Alessandria, Cuneo e Aosta.

Carmen ha raccontato dei figli ormai universitari e da sei anni dell’accoglienza di una ragazza universitaria, arrivata a 23 anni ed ora laureata, con una sofferenza intensa alle spalle: “Ho riflettuto su questo filo rosso: l’audacia evoca un passo coraggioso. E nella Grazia viene indicata la scaturigine dell’audacia. Ho pensato alla mia storia: ciò che mi ha mosso all’accoglienza è stato un fascino. In Famiglie per l’Accoglienza e nell’amicizia particolare con alcuni vedevo il bene che introduceva questo ‘di più’ che mi interrogava e mi faceva desiderare la stessa esperienza. Poi anche la nostra libertà è stata sfidata rispetto a questa richiesta di ospitalità. Ed è cominciata la nostra avventura. L’audacia iniziale che ti vede baldanzoso e desideroso – impeto di cui c’è bisogno per iniziare – si è impattata sulle tante circostanze e questo sì baldanzoso è stato messo tanto alla prova. Cosa mi ha sostenuta? E’ stata la compagnia di alcuni. Questa audacia ha bisogno di essere sostenuta. Ho sperimentato il sostegno di tutta la realtà di Famiglie per l’Accoglienza: i testi proposti, le testimonianze ascoltate, tanti stimoli con i quali verificarsi”.

Un’altra grande scoperta riguarda l’affronto di queste accoglienze che possono sembrare atti eroici, di cui scoprire un’audacia “che può convivere con la mia fragilità e i miei limiti”, continua Carmen. Questa è stata una grande scoperta, perché ti rappacifica con te stesso. Imparando ad accogliere se stessi, si impara ad accogliere l’altro”. Ripensando ai momenti belli e a quelli in cui ci sono state delle difficoltà, Carmen racconta: “Non possono non dire che c’è stato un bene. E’ stata una grande grazia che mi ha cambiata, ha cambiato sicuramente il modo in cui io e Franco stiamo insieme. Anche ai nostri figli qualcosa è passato. E’ stato un bene per tutti con la propria fatica e i propri passi. Mi sento di dire che questo bene conferma la bontà di quelle ragioni ultime che ci han fatto dire sì all’inizio ed ogni giorno”.

Silvia e Franco, sposati da quasi trent’anni e con venti di adozione alle spalle, prendono la parola. La loro è una storia particolare: sin dall’inizio il desiderio di figli che non arrivavano e poi le prime accoglienze e i primi sì. Subito un ragazzo ex tossicodipendente per qualche tempo e poi un altro di 18 anni che hanno accompagnato per tre anni a riprendere in mano la vita, a trovare un lavoro, fino all’abbinamento coi loro figli.

Il progetto parte per un’audacia e poi c’è la scoperta che “tutto è per te”. Silvia sottolinea: “Dopo l’arrivo dei figli ci siamo un po’ chiusi a qualsiasi altra accoglienza. Occorre essere realisti con se stessi, con i propri limiti e verso i bambini che accogliamo. Per noi è stato difficoltoso accogliere in casa anche i nonni. I figli chiedono di essere loro al centro dell’attenzione. Questa storia era per noi e non ne avrei voluta altre. Anche se alcune volte mi sono ritrovata a dire: ma chi me l’ha fatto fare? E quella ferita che si portano dentro continua ad esserci anche adesso che sono grandi. E tu come mamma, come papà, capisci di non riuscire a togliergli quella fragilità. Non puoi. Anche rispetto a storie affettive che non vanno a buon fine, li puoi accompagnare, ma non puoi togliergli questa ferita che si portano dentro”.

Franco: “Cosa è cambiato nel tempo? Molte delle paure che uno ha all’inizio si sciolgono in un bene certo. La promessa si è compiuta nella nostra vita. Sempre di più, e pure nella loro fragilità, è evidente che desiderano uno scopo nella vita. Capiscono che la vita va spesa. E si chiedono: ‘Perché vale la pena?’ “.

“Dalla grazia scaturisce in noi l’audacia”. Ma cos’è l’audacia? Pia: “Pensando all’audacia penso al film Divergent, i cui protagonisti sono gli intrepidi o audaci che hanno il compito di salvare il mondo. Facendo delle cose pazzesche salvano situazioni diverse. Tutti noi vorremmo contribuire creando un mondo nuovo e diverso. Ma noi possiamo solo assecondare il progetto che Dio ha per noi, fare il piccolo pezzettino che ci è chiesto. Quando abbiamo scoperto che non potevamo avere figli, un nostro amico sacerdote ci ha detto subito di non pensare automaticamente all’adozione. E così abbiamo iniziato a vivere. Abbiamo iniziato a incontrare ragazzi della parrocchia con tante storie faticose alle spalle. E’ stata una scuola e ci ha fatto crescere tanto. Così quando ci hanno proposto i nostri figli in una situazione non semplice il sì di getto detto alla proposta aveva alle spalle delle facce, degli amici che ci hanno sostenuto”.

Luca racconta: “Io provenivo da una famiglia piena di litigi e avevo la percezione che essere figlio non fosse la cosa più bella del mondo. Mia madre per esempio non aveva vissuto una vita sua perché sempre dedita a mio padre malato da accudire. Così all’inizio del matrimonio ho iniziato ad andare negli ospedali a dar da mangiare ai malati di Aids, che allora erano tanti e morivano velocemente. Ho visto che esiste un bene nelle situazioni più improbabili. Anche nell’esperienza con la Protezione Civile ho visto tante situazioni difficili, come con i profughi del Kosovo nella prima missione arcobaleno.
Il lavoro che mi è stato proposto era di andare fino in fondo a quel dolore, a quella fatica, perché altrimenti come fai a essere padre se non puoi capire quel che accade? Non è un’audacia ma una certezza nel futuro in forza di una realtà presente. L’aprire la porta a qualcun altro può essere un azzardo solo se si basa sulle nostre forze, ma sappiamo che tante volte dietro al caso si nasconde Gesù”.

Continua Pia dicendo che i loro figli hanno chiesto sempre in questi anni di accogliere anche i loro amici: “Chiedendoci non solo un piatto caldo per i loro amici, ma di guardarli come abbiamo fatto con loro. E’ un lavoro accettare di rimettersi in discussione e far entrare qualcun altro come figlio per i tempi che questo figlio resta. Questo aprire la porta ci ha dato di più, è stata una vacanza più bella e più ricca perché abbiamo obbedito a quello che i nostri figli ci hanno chiesto. Siamo persone normali ma c’è Qualcun Altro che sta con noi e ci insegna facendo con noi così”.

Luca conclude dicendo: “L’audacia è in realtà dire ‘ma perché no?’. Questa circostanza mi chiede di uscire dal mio progetto. Dire ‘ok, ci sto’ è sempre stata una cosa che ci ha fatto guadagnare tantissimo. Perché dire di no quando abbiamo già visto che da li passa un bene?”

L’ultimo intervento è di Agnese che esordisce, pur nella difficoltà della linea che non funziona, ma chiede così ai presenti di aprire ancor di più cuore e attenzione: “Io e Ernesto faremo trent’anni di matrimonio quest’anno: da subito abbiamo accolto tante persone. Dalla coscienza di appartenere a Cristo nasce l’audacia. Questa è stata la certezza che ci ha permesso di dire di sì tante volte. All’inizio  con un po’ di incoscienza, ma non per superficialità. E’ stato aderire alle circostanze che il Signore ci ha posto innanzi. Forse l’unica volta che abbiamo progettato qualcosa a tavolino è stato fare la domanda di adozione, che poi non è andata a buon fine.
Vorrei però anche dire che nella nostra storia la nostra audacia ci ha fatto dire dei Sì , ma altre volte anche dei No. Questo perché se l’audacia è questa certezza in Qualcuno che compie ciò che tu non sai fare, anche il no poggia su una certezza che Qualcun altro compirà quello che tu non puoi fare. Pensando ai supereroi dico che Gesù sulla croce non era un supereroe, ma era figlio, dipendeva dal Padre e a Lui gridava. Mi ha colpito perché dice di noi e dell’accoglienza vissuta in questi anni. Siamo figli e dipendiamo da qualcun altro e se non gridiamo a Lui la vita diventa difficile.
Abbiamo un figlio universitario e due figli in affido. Questa certezza di un bene nel presente che ci dà certezza nel futuro l’abbiamo colta in tante delle nostre accoglienze”.

Agnese continua raccontando in particolare dell’accoglienza del primo figlio in affido: dapprima i momenti belli, quelli dell’innamoramento, poi la sua fuga per tanti anni, fino a che non si ritrovano e lui li invita ad un aperitivo dicendo che sarebbe diventato papà e che loro sarebbero diventati nonni. E Agnese gli dice: “Noi ti abbiamo fatto da genitori molto poco e molto male!” Lui ha risposto: “Per me siete stati comunque i miei genitori, molto più di quanta coscienza avete. Questo perché nei nove anni in cui sono stato in giro per il mondo sono sempre stato certo di una cosa: che c’erano due che stavano pregando per me”.

Essere genitori non è nelle nostri mani ed è diverso da quello che a volte si pensa o si ha in mente. Agnese continua ricordando la frase di un amico sacerdote: “La carità ritorna sempre a ringraziare” e poi dice che questo figlio oggi è diventato padre affidatario perché, come racconta lui, “sa cosa vuol dire non avere una famiglia ed essere accolto”.
Agnese continua dicendo: “Questi sono dei frutti delle nostra esperienza di accoglienza. Che non sono sempre positivi, perché la fatica c’è stata e c’è ancora. Sono frutti a cui guardiamo nei momenti di fatica più grande. I figli accolti devono sempre fare i conti con le loro ferite e possono essere lenite solo dal Signore. Nei passi della vita, come la ricerca del lavoro, di una affettività stabile, spesso sono passi segnati da tanta fatica e stargli vicino è difficile. Una cosa però ho presente: quando sono piccoli è facile consolare il loro pianto, ma quando sono grandi non gli bastiamo più e l’unica cosa che possiamo fare è consegnare questo dolore e non portarlo. Un grande grazie a questa storia, a questa compagnia di amici perché è questo che ha reso fecondo il nostro matrimonio e l’ha sostenuto”.

Alla fine della serata, allora, l’audacia si riempie di un nuovo significato, di una speranza che si può vedere sui volti di questi amici più grandi che, come dice Antonello, “non sono più vecchi, ma semplicemente più maturi nell’esperienza e certi di un bene vissuto, pur nelle fatiche che ogni giorno ci sono chieste”. Ed è andando al fondo di ciò che ci chiede la realtà ogni giorno, continuamente in ricerca e non da soli, che possiamo realmente vivere, forti di quell’audacia. Quasi un po’ da supereroi, certi che i supereroi non siamo noi, ma Dio, che è Padre e ci accompagna sempre, riempiendo di significato il cammino della nostra vita.