
Bisogna che tutto ci venga tolto, perché tutto ci venga ridonato
Cosa rende un uomo grande? Perché vale la pena accettare la realtà come data? Che cosa ci fa essere certi che “in ogni seme un fiore c’è”, come abbiamo cantato nella canzone “La preferenza”? A queste e a tante altre domande ci ha aiutato a stare di fronte don Federico Pichetto, che oggi, domenica 23 febbraio, ha incontrato le famiglie del Veneto presso l’Istituto “Romano Bruni” di Padova.
Il dialogo con lui pone a tema il desiderio di poter vedere felici i nostri ragazzi accolti, partendo proprio dalle domande: “Che cosa desiderano e chiedono questi figli che accogliamo? Quali risorse abbiamo noi per stare di fronte alle loro ferite? Se è vero che l’esperienza dell’accoglienza è una strada di speranza, come questo cammino si riverbera poi nei figli accolti?
A queste domande don Federico non ha la pretesa di rispondere, ma ascoltarlo raccontare della sua vita è stata per noi occasione di vedere un uomo che non ha avuto paura di andare al fondo di sé e di compiere un cammino di conversione. Un uomo capace di comprare una scatola di cioccolatini per i propri studenti e di vederne il nesso con il destino.
Fin da piccolo ha conosciuto l’abbandono, ferita che l’ha da sempre accompagnato e che si manifesta in modo sempre diversi; una continua sete di bene, che però non veniva mai estinta. Nemmeno una volta scelta la strada del seminario e poi dell’ordinazione questa inquietudine trovava pace. È dovuto arrivare al punto di vedersi togliere tutto dal Mistero per vederselo ridonare più grande di come lo immaginava.
Il dialogo con lui ha preso forma proprio a partire dai contributi di alcuni ragazzi accolti, che hanno provato a rispondere alla domanda: “Quali circostanze ti hanno fatto percepire di essere amato? quali invece ti hanno ferito?” Ne riportiamo qualcuno.
Mi sono sentita amata quando, nonostante tutto, non mi hanno mai abbandonata. Tendo a spingere le mie relazioni fino al limite per testare quanto quelle persone tengano a me. Loro (i genitori accoglienti) mi volevano un bene incondizionato. C’erano sempre, come fa un vero genitore.
Mi sono sentito amato quando sentivo che qualcuno credeva in me. Ho percepito che l’altro (genitore accogliente) desiderava vedermi felice.
Mi sento importante e desiderato, quando mi aspettate per mangiare insieme, quando mi chiedete come sto. Quando mi dite che valgo, non per quello che faccio, ma per quello che sono.
Qualcuno di noi infine ha posto alcune questioni che desiderava guardare con don Federico, alla luce anche della sua testimonianza. Come far percepire, e trasmettere una speranza a questi ragazzi, specie a quelli più in difficoltà? Come aiutare i nostri figli ad accettare la circostanza, così faticosa e dolorosa, che è loro data? Dal dolore non si guarisce, c’è bisogno di tempo per perdonare sé e l’altro, e da ultimo il Mistero. In che modo è evidente nella tua esperienza questa faticosa accettazione della realtà come data?
Riportiamo ciò che più ci ha colpito delle sue parole.
Don Federico
I nostri figli non sono un banco di prova per noi. A noi non è chiesto né di parlare la loro lingua né di rispondere alla loro vita.
Ci sono chiesti due compiti, il primo: esserci. Bisogna avere una stima sincera per la loro libertà, anche accettando che possano raccontarci bugie. L’educazione è gestazione; questo implica avere pazienza e aspettare che i figli crescano.
Il secondo: restituire loro realtà, presentandogli anche le conseguenze delle loro scelte. I ragazzi cercano qualcuno che stia con loro e li ascolti davvero.
Sul tema del perdono poi, davanti a delle ferite che sanguinano ancora, quando puoi dire di aver perdonato? Non quando ti va bene quello che hai davanti, ma quando capisci che quello che è successo ha portato a galla un pezzo di te.
I nostri ragazzi ci guardano, quello che vedono di noi e in noi li educa, non quello che diciamo. Guardate come ci educa Dio, quando non sapete dove guardare.
Per un ragazzo la cosa più grande è avere una casa dove tornare, concepire se stesso come una dimora, che accoglie a sua volta sé e gli altri, e avere la grazia di un tempio, in cui pregare e che aiuta a guardare la realtà non solo per come appare, ma per quello che è veramente. Queste sono le tre cose che rendono un uomo grande.