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“Una curiosità che derivava da una sovrabbondanza di bene nella nostra vita”

La testimonianza di Nicoletta e Mirco alla Giornata di inizio anno delle comunità di Comunione e Liberazione di Rimini, Forlì, Cesena e San Marino

Nicoletta

Siamo sposati da 25 anni e per grazia di Dio abbiamo quattro figli e cinque “angeli” in cielo  (gravidanze non portate a termine).

La nostra vocazione nella storia dell’accoglienza è iniziata con il matrimonio, ma la consapevolezza è arrivata solamente dopo. Abbiamo sempre desiderato una famiglia numerosa, ma le cinque gravidanze non portate a termine, dopo l’arrivo di Caterina e Giacomo, hanno messo in evidenza il fatto che il compiersi di questo desiderio non era più reale – o quantomeno non era reale nella forma che avevamo in mente. Era nata in quel periodo così intriso di dolore (soprattutto per me  dal punto di vista psicologico e fisico) una grande domanda di significato, un grande grido a Dio: cosa ci stai chiedendo? Dietro questa circostanza che promessa di bene c’è?

Posi questa domanda ad una cara amica, Annamaria Chiarabini, che aveva speso parte della sua vita in missione in Africa, consegnandole il grande desiderio di poterci dare e spendere nella vita. Mi rispose citando un brano de L’annuncio a Maria di Paul Claudel: “Santità non è farsi lapidare in terra di Pagania o baciare in bocca un lebbroso ma fare la volontà di Dio con prontezza, si tratti di restare al nostro posto o di salire più in alto”. Questo dialogo ha reso ancor più evidente la domanda: a che cosa siamo chiamati? E ha chiarito che la risposta non era nelle nostre mani.

Un pomeriggio al mare un’amica ci parla della richiesta di accoglienza di una bimba con disabilità, di getto nasce la curiosità di andare a vedere di cosa si trattava, e con grande stupore Mirco mi segue in questo impeto. La cosa chiara sin da subito è che non si trattava di un ripiego, ma di una curiosità che derivava da una sovrabbondanza di bene nella nostra vita, dettata innanzitutto dalla vocazione matrimoniale e dalla certezza della promessa di bene insita in essa, resa concreta dall’amicizia e dalla compagnia della Chiesa e del movimento di Comunione e Liberazione.
Iniziamo a frequentare una casa di accoglienza per minori e ogni volta torniamo a casa più arricchiti. Qui, come cita un canto a noi molto caro, abbiamo iniziato ad intuire che “non mi interessa più dove, come, quando, perché sto iniziando a capire che la domanda che vale la pena farsi è: Chi? La mia più grande vittoria attraverso la mia sconfitta”. Quell’accoglienza non si concretizza, ma subito dopo ci propongono quella di un bimbo di cinque anni, G. Nel paragone con gli amici – primo ed importante luogo di compagnia – e in un lungo e bel lavoro tra di noi decidiamo di intraprendere il percorso dell’affido. In questa circostanza veniamo a conoscenza di Famiglie per l’Accoglienza, associazione e luogo di aiuto concreto nella quale è cresciuta la consapevolezza della nostra vocazione e che nel tempo ci ha chiesto un passo di responsabilità.

G. inizia a venire a casa nostra nei fine settimana per l’inserimento. Lo andavamo a prendere in casa di accoglienza il venerdì e lo riportavamo la domenica. Quando arrivavamo a prenderlo gli chiedevo cosa avesse fatto durante la settimana e lui mi rispondeva “Ti ho aspettato”. Che contraccolpo! Dietro al nostro grido e al nostro dolore c’era un volto preciso, che ci stava aspettando.  G. viene ad abitare definitivamente da noi circa 14 anni fa. Non si è trattato di una decisione facile, se fosse stato solo un nostro progetto avremmo desistito. Qui entra in gioco la quotidianità, ma anche l’evidenza che quello che vivevamo nel rapporto con lui era desiderabile in tutti i rapporti della vita. Innanzitutto, con lui era chiaro e lampante che i figli non sono nostri. L’incontro che G. aveva con i suoi genitori biologici, una volta mese, ci metteva di fronte al fatto che noi eravamo chiamati a custodirlo e ad amarlo liberi da ogni risultato. Con lui c’era in ballo il fattore “tempo”, l’affido è un percorso che solitamente ha un tempo determinato e questo ci aiutava a gustare quello che ci era dato, seppur nel timore di perderlo. Lui era dato. Nel qui ed ora. Non è forse questo uno sguardo desiderabile in tutti i rapporti?

Un altro aspetto che questa esperienza ci ha costretto ad affrontare è il lavoro di familiarità con un volto inizialmente estraneo. Come dice don Giussani nel “Miracolo dell’ospitalità”, la familiarità è il metodo che Dio ha scelto per incarnarsi e venire in mezzo a noi. L’accoglienza, nella forma di cui abbiamo parlato sino ad ora,  riaccade tante volte, anche quando siamo chiamati, ad esempio, ad accogliere o perdonare persone ostili (penso a certe dinamiche lavorative o familiari). Si consolida la consapevolezza che rispondere al bisogno altrui è una grande convenienza per noi, nonostante tutta la nostra inadeguatezza.

Tutto questo ci ha portato all’accoglienza della nostra figlia più piccola (affido che si è trasformato nel giro di breve in adozione), a cambiare casa per cercare un luogo più grande e accogliente insieme ad una famiglia di amici e ad aprire la porta di casa più  volte per accogliere varie forme di bisogno (dalle mamme africane venute in Italia con i loro bimbi per poterli operare al cuore, a studenti universitari che necessitavano di una casa a Rimini per tirocini o studio  ecc.).

Mirco

Nel tempo, nello stare di fronte alla realtà, la diversità stava diventando un problema, un luogo di scontro “sterile”, però avevamo l’intuizione che potesse essere invece una breccia attraverso la quale fare entrare un’altra misura. La nostra libertà si gioca, e in effetti si è giocata, in questo spazio, nel quale avremmo potuto intavolare discussioni infinite oppure nel quale, riconoscendo per noi un destino buono, un nesso profondo con chi ci ha voluto, ci affidiamo, facendo della nostra vita la risposta ad una chiamata, magari molto diversa da quella che avevamo sino a quel momento immaginato. Questa dinamica si è ripetuta spesso nel nostro matrimonio. Per esempio, quando ci è stata proposta la strada dell’affido, io e Nicoletta non siamo arrivati a quella proposta nella stessa maniera, con lo stesso atteggiamento. Siamo molto diversi. Lei molto celere e certa, io più timoroso e riflessivo. In quella occasione, come in tante altre, il passo lo ha dettato lei. Avrei potuto sicuramente mettere davanti tutta la mia paura e insicurezza, anche con ragioni valide. Quel fatto è diventato invece occasione di obbedienza a una chiamata. Mi sono fidato. Abbracciare questa posizione è stato per me espressione di una piena libertà in una misura che si sta rivelando il passo per il nostro compimento.

Nicoletta

Ho sempre avuto la presunzione di essere un passo avanti, di dover sempre stimolare Mirco a rispondere ai bisogni che ci si presentavano, Quanto è bello invece vedere che lui nella sua capacità di stare e amare gratis chiunque, per me è solo da guardare. Spesso ultimamente nel rapporto con gli amici, mi sono trovata a dire “ma io devo guardare come sta mio marito di fronte ad un figlio a un bisogno”. Così descritto sembra semplice, affascinante e bello ma è passato attraverso tante cadute, crisi e discussioni.  Ad esempio, nelle circostanze relative alle mie interruzioni di gravidanza, spesso, mi sono trovata da lui incompresa nel mio dolore, a volte per me sottovalutato. Proprio in questi giorni un’amica mi ha chiesto di fare una testimonianza alla cerimonia che si tiene il giorno della festa dei Santi in commemorazione dei bimbi mai nati. Sembra quasi che il buon Dio ci chieda misteriosamente, a 18 anni di distanza, di riguardare in faccia tutto questo come dentro ad un disegno sempre buono. Senza ombra di dubbio la sequela alla Chiesa, al movimento e alla nostra compagnia è stato luogo fondante perché ciò potesse accadere.

Piccola chiesa domestica. La nostra casa, le tante persone che passano e che, per grazia di Dio, riusciamo ad ospitare chiedono una coralità e un aiuto sicuramente importanti. Per i nostri figli è indubbiamente anche una fatica. Abbiamo bene in mente cosa voglia dire per loro ogni volta fare spazio, fare entrare qualcuno. Finché si tratta di una cena o di un fine settimana le cose forse sono più semplici, ma nella convivenza stretta della quotidianità emergono tante dinamiche. Emerge l’uomo. In tutto. Questo chiede che accada una familiarità, appunto, che nel tempo “accorcia sempre più le distanze”, diventa sempre più immediata, educata. Non facile.

 

E’ bello dipendere. L’ultima accoglienza che siamo stati chiamati a fare è di un ragazzo adulto di 27 anni. E’ un medico che ci ha chiesto ospitalità per qualche mese per un periodo lavorativo nella nostra città. Noi abbiamo sempre accolto persone anagraficamente più piccole e, inizialmente, ci siamo chiesti se cercasse una stanza o un luogo inteso come famiglia, come trama di rapporti generativi. Credo non sia semplice per un adulto il rimbalzo in famiglia dopo tanti anni. La perdita dell’indipendenza già sperimentata è una dimensione con la quale si è trovato a fare i conti e io personalmente non sapevo bene come pormi. In casa nostra  faccio la mamma, per cui alcune attenzioni a partire dal lavare i panni o preparare la cena mi vengono abbastanza spontanee. Un giorno mi guarda e mi dice: “Non mi tratti da giovane lavoratore. Io ho 27 anni!”. Oddio, mi sono detta e adesso come si tratta un giovane lavoratore? Succede che lui partecipa al campo del Disegno di Cesena dove per una settimana si vive a contatto e ci si occupa di ragazzi con disabilità, spesso anche gravi. Quando è tornato ci ha detto: “Guardando quei ragazzi cosi lieti e grati nel lasciarsi fare, ho scoperto che dipendere non è poi cosi male, anzi che tutti dipendiamo e da Chi realmente dipendiamo. L’altro giorno uno scambio di messaggi: “Perdona l’ennesima invadenza da mamma, ma se vuoi mi sono permessa di prepararti il pranzo da portare al lavoro”. Lui risponde: “Ora che ho rivisto quanto è bello lasciarsi fare, grazie mille, perché il problema nella vita non è diventare autonomi, ma compiersi e in questo momento per quel che sta succedendo con voi, e a Rimini in generale, ho visto che la mia realizzazione passa dallo stare in casa vostra”.

Poter guardare l’altro con questo struggimento che possa essere investito dallo stesso avvenimento che riempie e dà senso alla nostra vita è un’esperienza di cui ci accorgiamo essere spettatori ogni giorno.

 

Accogliere “Dio è qui”. Nell’esperienza dell’accoglienza delle mamme africane e dei loro bimbi che si trasferiscono in Italia per effettuare delicati interventi di cardiochirurgia all’interno del progetto “Operazione cuore “ di Rimini, ci siamo trovati a vivere un fatto drammatico che tanto ha richiesto delle ragioni del nostro accogliere. Kunashe, il bimbo di un anno con sindrome di Down che è stato con noi e con la sua mamma per quasi dodici mesi, dopo il rientro in Africa ha avuto una polmonite ed è salito al cielo. Lui e la sua mamma erano diventati per noi “casa”, in una familiarità e in un mischiarsi di culture e usanze davvero belle. Inaspettate. Accadute. La notizia della sua salita al cielo ha provocato uno squarcio e un grido di dolore che non poteva trovare risposta. Il dolore innocente (perché ne ha passate tante tra interventi, ricoveri, ecc.) è una questione di fronte alla quale non è facile stare. Che struggimento! Ora quello che spero è che la sua mamma possa essere investita dello stesso avvenimento che ha invaso la mia vita. Diceva Mounier “Niente assomiglia di più a Cristo dell’innocente che soffre”.

Kunashe nella loro lingua significa “Dio è qui” e mio figlio al momento della sua morte ha detto: “Mamma abbiamo realmente accolto Dio è qui”.  Dalla sera in cui abbiamo recitato il rosario ci siamo resi conto che niente è nelle nostre mani e che c’è un destino che sovrasta ogni nostro immaginabile disegno di bene. Un amica mi dice: “Il piccolo ha terminato il suo compito sulla terra e ora è con Gesù. Conosci un posto migliore? Forse l’Africa per un bimbo down era il posto migliore? Non lo so, ciò che so è che il suo destino è compiuto e tu non sai cosa porterà e come si declinerà questo passaggio e questo incontro per te, Mirco e la tua famiglia”.

Qualche giorno dopo sono arrivate sei ragazze volontarie per il lavoro del preMeeting. E’ stata l’accoglienza successiva a quella di Kunashe. Quando le ho viste mi sono commossa. Ho detto: “Ecco Dio è di nuovo qui”, ha solo cambiato volto. Così come per la prima volta.