Non si finisce mai di partorirli questi figli. L’esperienza di lasciarli andare non finisce mai.
“Quando l’accoglienza diventa lasciare andare” è il tema dell’incontro regionale del Veneto di Famiglie per l’Accoglienza che si è tenuto domenica 12 Marzo 2023 a Verona, presso il Teatro Parrocchiale San Domenico Savio, con don Emanuele Silanos, della fraternità di San Carlo Borromeo.
“C’è un dolore che nasce dall’accorgersi di essere incapaci di accogliere la diversità”, ha detto Marco Mazzi introducendo l’incontro “e la gratuità nasce da questo dolore.” Su questo dolore e su questa gratuità, ci siamo fatti accompagnare da don Emanuele.
“Accogliere e lasciare andare”, ci ha detto lui, “in fondo hanno la stessa origine, perché quelli che accogliamo non ci appartengono e quindi dovrebbe essere più facile lasciarli andare. Eppure c’è sempre la tendenza di appropriarcene”.
Poi ha proseguito. “Ci sono due atteggiamenti. Quello di chi pensa che di poter dominare la realtà e quello invece di chi osserva la realtà e pensa che sia un dono. Il primo guarda a sé , alle cose che fa, l’altro invece è concentrato sulla realtà.”
Poi ha parlato della differenza tra aspettativa e attesa che ha a che fare con la differenza tra pretesa e gratuità. Chi si sente in credito con la vita, per quello che ha subito o sofferto, chi pensa che la vita non gli ha mai dato abbastanza, finisce col riversare sull’altro l’aspettativa di ciò che non ha ricevuto e quindi anche i figli sono un po’ ‘dovuti’, sono una ‘ricompensa’. L’attesa invece è di chi ha già ricevuto, come la Madonna che è tutta attesa e così la realtà diventa un dono.
Chi vive come Maria, guarda agli altri e ai propri figli come a un dono e in quanto dono, un figlio non dipendente da noi e quindi non importa se arriva o non arriva o se è pieno di difetti. E’ per questo che, come ha detto Samuela “Per riconoscere il positivo, non abbiamo bisogno che vada tutto liscio, ma che si giochi la mia libertà” ed è solo dentro questa obbedienza che uno scopre tutta la letizia di cui altrimenti non sarebbe capace.
Commovente l’intervento di Sante che parlando del loro affido con un bimbo piccolo che poi si è inspiegabilmente interrotto, ha detto che l’alternativa era tra “fare una guerra o prendere in considerazione l’ipotesi che potevamo non essere noi il suo bene”.
Poi il racconto dell’episodio di un padre che ha perso il figlio ancora giovane e che dice “Io sono ancora arrabbiato con Dio e provo tutti i giorni lo stesso dolore.” Ma alla domanda “Ma lei vorrebbe non provare più questo dolore?” non può che rispondere “Sarebbe come dire, che non amo più mio figlio”. “Il dolore, il sacrificio”, commenta Silanos, ” è l’esperimento più grande del nostro amore.”
Bellissimo anche il racconto di Gimmi, che parla di un ragazzo che avevano accolto nella loro casa famiglia per alcuni anni e di come rivedendolo, molti anni dopo, si accorgono e devo constatare quanto fosse, bello, ordinato, messo bene. “E lì abbiamo capito che ci poteva essere qualcun’ altro che gli voleva bene. Lì abbiamo capito che voler bene, vuol dire voler bene a tutta la vita dei nostri figli, a quella che viene prima e quella che viene dopo o che verrà. L’accettazione e la scoperta della nostra meschinità è accettare che non siamo gli unici a saper amare e voler bene i nostri figli.”
Quando i pastori sono andati alla grotta di Betlemme,” commenta Silanos, ” hanno visto due poveracci che erano talmente messi male che avevano deposto loro figlio tra gli animali. Penso che l’ultima cosa che avessero voluto Giuseppe e Maria era mostrarsi in pubblico così. E forse si sono anche un po’ vergognati. E forse il Signore li ha fatti incontrare con il pastore perché guardassero il loro figlio come lui lo guardava.”
Non accettare tutto ciò che ci fa vergognare dei nostri figli in fondo è un po’ volerli possedere. Per i nostri figli, noi possiamo dare anche solo la nostra meschinità. Perché è proprio quando ci sentiamo niente, che possiamo offrire tutto. La santità non è offrire tutto, ma lasciare che Dio si prenda tutto.
Ketti è intervenuta per raccontare del distacco dal suo figlio in affido e di come ogni volta che lo rivede ritorna il tarlo della domanda “e se fosse stato con noi, oggi come sarebbe?”.
Questo dolore è un Mistero, commenta don Emanuele, che è più grande di noi. “Maria e Giuseppe erano angosciati perché si sentivano di non essere adeguati al compito che gli era stato affidato che era più grande di loro. Quindi quando vi sembra che il compito sia più grande delle vostre forze, pensate che prima di voi ci sono passati Maria e Giuseppe”. Gesù è pieno di tenerezza e comprensione per i suoi genitori perché si rende conto che non possono capire il Mistero che è lui, ma la stessa tenerezza c’è l’ha anche per noi.
Infine la domanda sofferta di Francesco che, raccontando della vicenda di sua figlia in affido che a 18 anni è uscita di casa, chiede “Tutto il bene che abbiamo dato in questi 7 anni di affido è per arrivare a questo? Così mi ricompensi?”
In questa domanda c’è come la pretesa di ricevere qualcosa in cambio. Tutti sappiamo che non abbiamo niente da pretendere, eppure ci ricaschiamo sempre.
Qual’ è la nostra ricompensa? La nostra ricompensa è ciò che abbiamo già ricevuto in abbondanza, è il fatto che siamo stati scelti.