Come riaccade il miracolo dell’ospitalità
Ragusa, 24 giugno 2017: tante esperienze diverse – dal centro d’accoglienza migranti alla mamma affidataria – che documentano l’attualità de Il miracolo dell’ospitalità. Il racconto del moderatore, Mario Tamburino.
È un viaggio dentro esperienze concrete di accoglienza ad esemplificare, attraverso percorsi diversi, la straordinaria attualità del libro di don Luigi Giussani, Il miracolo dell’ospitalità, presentato sabato 24 giugno presso il Salone parrocchiale di S. Giuseppe Artigiano a Ragusa.
Sebbene il testo del prete di Desio scaturisca da interventi e dialoghi raccolti, tra il 1985 e il 1996, con i membri dell’Associazione “Famiglie per l’Accoglienza”, che in tutta Italia sostengono esperienze di realtà familiari che si aprono all’affido e all’adozione, l’attuale contesto di approdi di migliaia di disperati sulla soglia di casa nostra segna un orizzonte ancora più vasto, decisivo e drammatico alla sfida dell’ospitalità.
Davanti a Marco Mazzi, Presidente nazionale di Famiglie per l’Accoglienza, è Vito Piruzza, giornalista e bancario impegnato nel mondo dei media cattolici, a cogliere il nucleo fondamentale dell’approccio di Giussani al tema dell’accoglienza, nel non avere voluto teorizzare nulla, ma essendo partito “da ciò che c’era già come esperienza in atto” e volendone “coglierne il senso”. Un rilievo da non dare per scontato quando lo slancio ideale o il contraccolpo emotivo di chi accoglie un bimbo estraneo o un migrante in casa propria o nella propria terra si affievoliscono e affiora tutta la fatica ad accettare la diversità dell’altro.
Silvia Galifi, psicologa, responsabile del Centro Speciale di Accoglienza per adulti “Ebano” di Ibla, afferma di avere guardato con occhi laici al testo del fondatore di CL, rintracciandone con sorpresa l’universalità. “Quando incontriamo profughi o migranti a Pozzallo, dopo lo sbarco –racconta- mi imbatto nello sguardo di gente in attesa”. Un’attesa incommensurabile con la capacità di chi li accoglie poiché, spiega, “sono come i bambini che all’uscita dalla scuola attendono la mamma che li vada a prendere”. L’avventura che ha inizio tra diritti proclamati e ostacoli burocratici di ogni tipo è quella di “aiutarli a ‘perdonare il dolore’ di una dignità tante volte calpestata di cui porteranno per sempre il segno impresso sulla pelle”. Attraverso mille frustrazioni, un’evidenza emerge: “Non sono da soli. Siamo insieme, per questo è possibile sperare”.
Ad Abiboullah Camara, ospite del Centro, tocca il compito di dare voce al punto di vista di chi chiede di essere accolto. Il suo è il grido di chi non vuole rimanere un fantasma, ma chiede di essere riconosciuto e ascoltato come uomo. “Dobbiamo integrarci perché siamo presenti” afferma richiamando un’evidenza che molti si rifiutano di accettare. Il suo desiderio ”di una vita migliore fuori dal Centro di Accoglienza” lo ha condotto a frequentare i corsi serali di per ottenere la licenza media, ad aprirsi a numerose esperienze di volontariato e infine a lavorare in un ristorante. E se il proprietario lo ha valorizzato da subito, non di rado i clienti storcono il naso e temono “le malattie che portano i neri”. Il giovane della Guinea non cerca un’accoglienza a scatola chiusa, chiede un’occasione: “Conosciamoci prima di giudicare”.
La storia di Alessia è quella di una “normale” sterilità che, alla soglia dei quarant’anni, l’aveva condotta ad accettare l’idea dell’affido e dell’adozione. Un percorso in cui a poco a poco la prospettiva cambia. “Credevo di avere diritto ad avere un bimbo, a non essere più considerata ‘difettosa’. Invece la svolta è avvenuta quando abbiamo scoperto che era il bambino ad avere diritto alla felicità e che noi potevamo aiutarlo:ci è cambiata la prospettiva”. Ed è proprio in quel momento, effettuando il millesimo test di gravidanza per dimostrare a se stessa di poterlo fare oramai senza soffrire, che Alessia scopre di essere incinta. Nonostante l’arrivo di una bellissima bambina, il desiderio di vivere quella dimensione di accoglienza intravista e che aveva cambiato lei e il marito, permane. L’affido di Davide e la sua consegna, dopo otto mesi, alla famiglia che potrebbe adottarlo, segna un punto di non ritorno. “Pensavamo di prenderci cura di lui, ho scoperto che è lui che si è preso cura di noi. Adesso è parte di me come se fosse uscito dal mio ventre”.
Gianna Chessari ed Emilio Adamo dal 2002 gestiscono la Casa Famiglia MetaCometa. Da lì sono passati ragazzi difficili, giovani donne da proteggere, adulti in difficoltà. “Il testo di Giussani è stato per me una grande compagnia. Vi ho ritrovata descritta la mia esperienza”, racconta. L’esperienza di una donna volitiva e capace che pensava di cambiare la vita di chi le era affidato e che, invece, come in ogni vera esperienza di accoglienza, scopre che loro “il destino lo hanno cambiato a me”. “Quando Sara, la ragazza che per prima mi era stata affidata, è andata via sbattendo la porta, mi sono sentita fallire. Il ‘fallimento’ del proprio progetto buono apre tuttavia ad una scoperta sorprendente: “L’accoglienza più grande -scrive don Gussani- è quella del proprio limite”. Ma questo è possibile perché “il destino non è nelle mie mani, bensì in quelle di Uno più grande”. Oggi Sara oltre ai propri tre figli accoglie anche i quarto figli del compagno. È proprio vero: “Per accogliere bisogna essere stati accolti”. Varrà anche per i migranti?
“La diversità presa in casa ti ferisce” afferma Marco Mazzi concludendo il gesto. “Essa, infatti, ha bisogno di essere perdonata”. Dentro questo sguardo persino l’ingratitudine di chi sbatte la porta diventa “stima del tentativo di felicità che l’altro fa”. Nulla di automatico. L’accoglienza, semmai, accade come un miracolo.”Un dolore enorme trova una compagnia”, non delle soluzioni. Al rapporto con te “io ci sto, perché mi sei diventato caro”.
Mario Tamburino