Bologna, il cuore che guarda quello dei profughi stranieri
Il 13 novembre le famiglie bolognesi dell’Associazione si sono trovate per ascoltare la testimonianza di Rossana Gobbi, insegnante elementare in carcere e promotrice di un gruppo volontario di alfabetizzazione di profughi stranieri accolti nella nostra città.
“Questa esperienza ha ribaltato completamente la mia famiglia, una differenza incredibile che mi mette in relazione con mio marito e che devo all’esperienza di accoglienza che stiamo vivendo”.
L’invito nasce dal desiderio di incontrare qualcuno che ha preso sul serio l’invito di Papa Francesco rispetto all’essere disponibili all’accoglienza verso il diverso, il molto diverso da sé. Rossana ci racconta di come l’iniziativa di insegnare italiano a dei giovanissimi ragazzi stranieri, presso la scuola elementare dove aveva insegnato fino a 5 anni prima, le ha posto subito una grande domanda sull’educazione e sul fatto di non essere certa di essere adeguata. L’appoggio della scuola e delle persone che si sono offerte volontarie nell’accompagnarla, l’ha fatta partire. Non è stato motivo di scandalo l’obiezione di alcuni genitori preoccupati per l’incolumità dei loro figli, perché Rossana sa bene che “si ha paura di ciò che non si conosce”.
Infatti, quando le è stata data la possibilità di andare ad insegnare in carcere a Bologna l’impatto immediato non è stato di entusiasmo, ma ha accettato la sfida ed ora è cresciuta. Ha capito sulla sua pelle che, per incontrare le persone, la religione e il colore non contano. Anzi, ci dice “Incontrare altro da me è un modo per darmi le ragioni di quello in cui credo, è un modo per capire di più le mie ragioni”.
La testimonianza prosegue raccontando dei ragazzi. Lamin che ha “vissuto un’esperienza atroce attraversando il Gambia e giungendo in Italia su un barcone”, esperienza di cui fatica a parlare per quanto si commuove. Lo hanno iscritto alle medie. Non capiva niente di quello che gli davano da leggere. Rossana lo rincuora: “Vai alle medie, ti serve entrare in contatto e qualcosa impari, poi vieni qui e ti aiutiamo”. È la volta di Red che vuole tornare al Cairo perché “Qui non mi vuole nessuno”. Non ha parenti in Italia e non vuole passare da una comunità ad un’altra senza sapere cosa ne sarà di lui. Un terzo ragazzino era così terrorizzato dal posto, che non ha saputo identificare come un bene per lui, ed è scappato subito lasciando a Rossana e a noi una grande domanda di significato.
“Ora, quello che inizialmente era un elenco di nomi è diventato una presenza fatta di persone, ognuna da ascoltare, guardare, da scoprire. E quello che è scappato ci ha insegnato ad avere uno sguardo profondo per incontrarli, perché quello che noi pensiamo essere il bene per loro potrebbe non esserlo dal loro punto di vista”. Prosegue Rossana: “L’unica cosa che posso fare è star di fronte a loro così come sono, incontrandoli inizia un dialogo da cui può nascere qualcosa di imprevisto. Non dipende da me. Io sono uno strumento. E quello che sono mi è dato, è un frutto non mio, ma dell’esperienza che faccio. È liberante. Questa esperienza ha ‘ribaltato’ completamente la mia famiglia: una differenza incredibile, che mi mette in relazione con mio marito, che devo all’esperienza di accoglienza che stiamo vivendo. Dieci anni fa non sarebbe stato così per me. È successo qualcosa: sono stata voluta bene io per prima, ho sperimentato uno sguardo di bene su di me. E il bene vince sempre”.