«Giorgio li aveva scelti»: il reportage di Verona Fedele
Marta Bicego, giornalista del settimanale diocesano Verona Fedele, visita il gruppo affido di Grezzana delle Famiglie per l’Accoglienza in un momento drammatico, dopo la scomparsa del piccolo Giorgino. Ne è nato questo reportage, uscito nel numero di domenica 23 ottobre.
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Famiglie che accolgono chi cerca una famiglia (Marta Bicego)
Verona Fedele, domenica 23 ottobre, p. 7
La serata inizia con una preghiera per il piccolo Giorgio. Ed il ricordo, in un tenero abbraccio, avvolge Elena Zambelli e Matteo Menini: sono genitori di Gaia, mamma e papà di un bimbo speciale. È la prima volta che il gruppo affido dell’associazione Famiglie per l’accoglienza si ritrova, nelle sale parrocchiali di Grezzana, dopo che Giorgio è salito in cielo. C’è commozione, unita alla consapevolezza d’aver accompagnato insieme, per un tratto di vita, un bambino bisognoso di amore.
Tutto ha origine da un “sì”, che scaturisce dal profondo. È il filo rosso a legare le famiglie come quella di Elena e Matteo, e sono oltre 3mila quelle presenti sul territorio nazionale, che fanno parte di questa realtà associativa fondata a Milano nel 1982 ed attiva in vari ambiti: dall’adozione all’affidamento familiare, dall’ospitalità di adulti in difficoltà all’accoglienza di figli disabili o di anziani. Agire che, per una corrispondenza di cuore, ha portato alla nascita nel 1989 di una sezione veneta con sede a Verona. Riunisce, spiega il presidente regionale Gimmi Garbujo, «350 famiglie e sono un centinaio i gesti di accoglienza tuttora in atto tra affido diurno e residenziale, appoggio familiare e adozioni».
I due gruppi affido scaligeri, presenti a Grezzana e Villafranca, contano una quarantina di genitori: «Si riuniscono periodicamente, per riflettere sulle ragioni e le difficoltà del sì, sul valore del bene che stanno vivendo. Sono realtà aperte a quanti desiderano sperimentare l’accoglienza».
Un terzo gruppo, composto da una ventina di famiglie che hanno scelto il percorso dell’adozione, è a Sommacampagna mentre a Villafranca, dal 2007, nel solco dell’esperienza acquisita dall’associazione si trova Casa San Benedetto: creata dalla famiglia Garbujo, ha dato ospitalità a sedici minori, sette dei quali risiedono lì attualmente. «In questo periodo, dire sì all’accoglienza ha del miracoloso. Al di là della risposta, del pronunciare sì o no, è importante farsi interrogare», precisa Nazzarena Filippini, referente per il gruppo di Grezzana. Grazie all’associazione, spiega, si è creata una fitta rete di contatti tra persone disponibili ad accogliere. Le segnalazioni, chiarisce, «arrivano dalle Ulss, dagli assistenti sociali, dai Comuni, dalle scuole, dai reparti ospedalieri per neonati abbandonati perché malati gravemente o con una forma di disabilità». Anche Nazzarena è una mamma affidataria: nel 1999, con il marito, ha aperto le porte della sua abitazione a due fratellini, uno aveva appena dieci mesi e l’altro due anni, senza timore di allargare il nucleo familiare a sei componenti. «Non è stato facile. Ma quando è arrivata la richiesta, mi sono domandata: “Perché no? Perché non noi?”. Il maggiore dei miei figli, all’epoca dodicenne, disse di non poter essere contrario ad una cosa che non aveva provato». Ad accomunare questi ragazzi, oggi, è un sentimento fraterno. «Non è stato facile – ribadisce – I bambini erano segnati dalle esperienze vissute. Lo ricordano sorridendo: a lungo hanno nascosto il cibo sotto il materasso…».
In generale, sono ragazzini protagonisti di storie complicate, conferma Anna Farenzena. Quando, undici anni fa, ha saputo che nella classe della figlia c’era uno studente che necessitava di sostegno per i compiti e lo studio, dopo che i parenti si erano trasferiti all’estero, l’ha preso con sé in affido diurno. Non è stato l’unico “figlio” al quale ha detto sì: una volta che si impara a dar ascolto al cuore, la strada diventa in discesa. È stato così per Marcella Fiorentini: madre affidataria, per sette volte, di bimbi desiderosi di abbracci. Da dosare, per non far scattare sentimenti di gelosia e mantenere l’equilibrio tra i familiari. «Alla nostra tavola si sono seduti volti di ogni etnia: per noi è stato motivo di orgoglio, di ricchezza. La nostra porta è aperta», racconta. Non è un caso se sua figlia si occupa di mediazione interculturale: ad aprire cuore e mente, mettendo in pratica lo spirito dell’accoglienza, l’ha imparato tra le pareti domestiche.
Da un iniziale “si” scaturiscono legami speciali, che proseguono e si fortificano. Anche quando i ragazzini raggiungono la maggiore età e possono scegliere se ricongiungersi con i genitori, se rimanere con le mamme e i papà che li hanno cresciuti, se affrontare un percorso verso l’autonomia. «Cosa facciamo?». La risposta è spontanea: «Accompagniamo queste persone per un tratto di strada: insegniamo loro a mettere la tovaglia sulla tavola, ad abbellirla con un fiore. Nella speranza che si ricordino alcuni di questi gesti, un giorno o l’altro e qualsiasi cammino decidano di intraprendere da adulti».
Giorgio li aveva scelti: se n’è andato tra le braccia della sua mamma (Marta Bicego)
Verona Fedele, domenica 23 ottobre, p. 7
Era l’ottobre del 2012 quando Elena Zambelli e Matteo Menini hanno ricevuto, via email, la segnalazione di Giorgio. Un frugoletto nato al sesto mese di gravidanza, del peso di sei etti, che una volta arrivato al mondo non è stato riconosciuto. «Un combattente – dicevano i medici – che, operato a cuore ed intestino, è stato più volte in pericolo di vita. E alla ricerca di genitori che lo affiancassero nel cammino terapeutico», racconta la coppia, che vive a San Rocco di Piegara. «Io ed Elena ci siamo guardati e con il cuore pieno di emozione abbiamo subito risposto con un sì – ricorda Matteo -. Dopo qualche giorno – prosegue – il Tribunale dei minori di Milano ci ha convocati per un primo colloquio, spiegandoci che il bimbo che aveva bisogno di essere accolto era “speciale”: aveva un quadro clinico complicato. Nel nostro cuore sono sorte domande e paure: ce la faremo? Siamo all’altezza? Saremo in grado di aiutarlo, curarlo, dargli ciò di cui ha bisogno? La nostra voglia di dire sì non si è mai affievolita. E il 14 novembre la nostra vita è cambiata: Giorgio ci ha scelti come suoi genitori». Da subito, è stato amore a prima vista: «Era bello sempre: quando rideva ed era felice, quando piangeva e faceva i capricci; quando si faceva coccolare, quando ti correva incontro per darti il benvenuto o suonava la sua gle, la chitarra. Era bello quando lentamente, tra le braccia della mamma, tenendogli la mano sul cuore se ne è andato». Un anno fa, infatti, la salute di Giorgio si è fatta ancor più cagionevole: era soggetto a diverse crisi e frequenti ricoveri in ospedale. «I medici iniziavano a parlare di malattie degenerative, di gravità del quadro clinico. Spaventati, abbiamo reagito con una serie di domande rivolte a Dio: perché Giorgio? Non ne ha passate abbastanza? Non è giusto: è solo un bambino indifeso, ha già sofferto tanto. Ci siamo aggrappati alle preghiere, alle richieste di miracoli, abbiamo invocato i Santi. Sono partite un mare di preghiere». Da parte di persone sia vicine che lontane. Sofferenza e smarrimento hanno trovato risposta nella fede, aggiunge papà: «Dio non ci chiama per trovare risposte o soluzioni alle difficoltà della vita, ma ci sostiene per affrontarle; non dobbiamo viverle usando la testa, ma con il cuore in mano». La scomparsa di Giorgio ha lasciato un vuoto nel paese di San Rocco. «Era figlio nostro e di tante altre persone – interviene Elena -. Questa esperienza ha insegnato a tutti a guardare le cose con occhi diversi. Ha aiutato noi ad essere uniti come famiglia. Forse gli era stato affidato un altro compito: smuovere la preghiera». Così è stato nella comunità della Lessinia. L’altro piccolo-grande miracolo compiuto da Giorgio è stato quello di aver fatto arrivare la sorellina Gaia, proprio mentre la coppia pensava ad una seconda adozione: «Gaia è il regalo di Giorgio».