Giornata di convivenza Liguria a Genova: com’è andata
Arriviamo alla giornata di fine anno carichi di tutte le fatiche e di tutta l’attesa nostra e dei nostri figli e forse ci aspettiamo un racconto eccezionale che possa scuoterci dalla routine quotidiana.
Rimaniamo tutti colpiti dalla normalità che comunica Miriam Nembrini (maestra elementare e mamma adottiva di Bergamo), così attenta a riconoscere la sfida delle circostanze semplici nel lavoro e nella famiglia.
L’ospitalità verso tutti respirata in casa come esperienza normale, la certezza della Provvidenza, l’educazione a dare ai bisognosi “non qualcosa che si scarta, ma qualcosa di bello perché tutti abbiamo la stessa dignità”…
Ci dice della sua voglia di imparare, che non diminuisce con l’avanzare dell’età, e che significa innanzitutto guardare: nella sua vita ha quindi imparato guardando i genitori, guardando e obbedendo a chi l’ha aiutata a vivere le circostanze più dolorose della sua vita, guardando nei propri bambini più che gli errori la freschezza e la gratitudine, scoprendo che i figli sono un regalo per cambiare noi stessi. Ci racconta di quando, dopo il matrimonio, per problemi di sterilità lei e il marito erano ripiegati sul loro dolore, a cui pensavano di dare risposta adottando un bambino: si confrontarono con Don Giussani, che sorprendendoli, in quel momento disse loro di no, “perché si adotta non per riempire un vuoto, ma perché si ‘sperimenta un pieno. Decisero di fidarsi di quel giudizio, dell’invito, rivolto da Don Giussani, a cercare di essere padre e madre di chi il Signore avrebbe messo sul loro cammino; capitò così di accogliere una ragazza, e durante quell’esperienza si sorpresero pieni di gratitudine per il fatto che le volevano bene così come era. Senza più avere sempre in mente il dolore per la mancata gravidanza raccontarono tutto a Don Giussani, e lui disse: “ecco, adesso siete pronti, adottate!”. E dunque l’arrivo di una bimba dall’India.
Ci racconta ancora di aver vissuto la fatica comune a tante mamme: sentirsi un po’ “usate” dai familiari, stanche per la pesantezza delle faccende domestiche (cucinare, fare l’autista….), ma dentro quella fatica la scoperta che servendo il marito, i figli, gli amici abbiamo la possibilità di servire Gesù.
Finchè si presenta una malattia seria, durata 8 anni, nella quale, dopo tanta generosità, si accorge che è lei ad aver bisogno per prima di essere accolta e, guardando la propria fragilità, diventa capace di guardare l’umano ferito in sè e negli altri. Ma una domanda drammatica resta:
“Cosa valgo se non so più fare niente?”. Questa domanda è accompagnata dalla certezza che il Signore vuole bene e fa crescere il desiderio che tutto quello che si fa sia per la Sua gloria; ci racconta come quella domanda, a seguito del miracolo della inaspettata guarigione, si trasforma in un’altra: “perché a me?” e di come suo fratello Don Eugenio l’abbia invitata a tenere sempre aperta quella nuova domanda, tanto che adesso si scopre a vivere con più determinazione e intensità il suo rapporto con Cristo, per testimoniarne la gloria.
Conclude raccontando dell’ultima difficile accoglienza, quella di un ragazzino avuto in famiglia dai 16 ai 18 anni : anche qui Miriam impara da ciò che accade. Quando al ragazzino è morta la nonna, si è sentita dire: “sai Miriam, da voi ho imparato che quando muore qualcuno non si piange solo, voi sorridevate… Ora e’ come se avessi davanti a me un sacco con delle cose che voi mi avete dato, e che io posso tirare fuori a seconda delle situazioni!”. Il bene resta, e il buon Dio lo utilizza per i suoi scopi…